martedì 26 marzo 2013

Aggrappate su un ramo in attesa

Lo so che scrivo a singhiozzi e che pare di essere in una famiglia con la regola del "non aiuto in casa però, cazzo, ascoltatemi quando parlo a tavola!".
Pensavo alla giustizia. La politica ormai, solo a sfiorarmi, mi fa rabbrividire di fastidio. Vale tutto ed il contrario, basta che sia insano. Ed il contatto con adolescenti stanchi non migliora l'umore.

La neve a fine marzo non sarà cosa unica, ma fa una certa impressione. Passare giornate con guinzaglio alla mano per strattonare libertà lacerate in partenza, mi stanca, mi deprime quasi quanto il vuoto. Ricompongo un puzzle in cui unisco discorsi dei miei tredicenni di fiducia: l'incapacità di un ragazzino nel trattenere la frustrazione verso il mondo che lo sta ospitando in malo modo, mi fa male. Mi aggrappo all'esperienza passata, la mia, quella di altri, vissuta, letta, immaginata. Mi aggrappo ai perché, ai retroscena. Ma non riesco. Guardo un'ingiustizia sciocca tra adolescenti, una stupida presa in giro di poco valore e mi scappa da urlare. Io, quella che scalava i muri, saltava dagli alberi e correva più veloce. Quella che tornava per conto suo a sette anni, per non aspettare.. perché poi non c'era nulla da aspettare. Il mio tempo passato a costruire idee, frantumarle, plasmarle, fagocitare aria e distrazione. Il mio desiderio di essere cercata solo perché c'ero e sapevo esserci. Ore a pattinare, la rabbia tra gli occhi, il dolore nelle ossa, che non chiamo ancora per nome. Quell'amore che strappavo coi denti e che da me stessa poi lasciavo uscire centellinato per poi straripare di colpo in una piena di emozioni che raramente ha risparmiato vite.
Ed ora eccomi qui, a cercare comprensione di questi sguardi giovani, appesi nel vuoto. Parole e percorsi simili, eppure così lontani. Insegnare tra i banchi le stesse cose di 100 anni fa, stesse parole, esperienze trasfiguarate, stessi tavoli col buco per il calamaio e domandarsi perché tutto precipita.
Perché le parole non arrivano?

Pensavo a quante volte non comunichiamo davvero. E le parole le usiamo come manate sulle spalle, che un po' ci rassicurano e un po' ci instabilizzano. Ma non ci trovano. Chissà dove siamo, quelle volte. Chi si prende cura del nostro ignorarci. Cosa ci permette di avere altre possibilità quando saremo pronti. Perché pare spesso che succeda così. Spesso, non sempre.
Siamo così diversi quando parliamo del mondo e degli altri senza lasciarci sporcare da noi, senza esserci. Così sicuri e pieni di moralismi e regolamenti. Poi basta una sbucciatura, un'offesa inaspettata, un punto di vista che ci ribalta come un calzino e torniamo in vita di colpo. Torniamo a tremare come foglie di uno stesso albero, che bramano la libertà quando salde e verdi, ci nutriamo della sua linfa e che, ironia della sorte, impariamo a volare solo dopo morte. Solo se disposte a nutrire e diventare la stessa terra che abbiamo deriso. Calpestato, magari. Ma che eravamo sempre noi.