domenica 22 aprile 2012

Oh, rabbia!

Da piccola giocavo molto coi soprammobili. In salotto c'era una bottiglietta di vetro, tipo quelle con la nave, che ti domandi come sia finita lì. C'erano tre cagolini di vetro, in fila, dentro. Un oggetto orrendamente kitch, non lo nego, ma l'adoravo. E adoravo il piccolo tappo di sughero che la chiudeva.
Probabilmente l'intenzione era molto evidente, perché mi dissero di non toccare quel tappo. Che se l'avessi fatto i tre cagnolini sarebbero diventati sempre più grandi, dimensioni naturali, e sarebbero fuggiti.
Ci ho creduto. Ma soprattutto quel tappo l'ho lasciato stare per anni. Non temevo che fuggissero. Temevo tanto che non lo facessero.
Ho lasciato quella favola abitarmi molto a lungo, anche quando ormai era una sciocchezza pure per me, almeno a parole. Perché nei fatti c'era una minuscola e tenace parte dentro che voleva crederci ancora un po'. Solo da adulta mi capitò in mano quell'affare senza senso che amavo tanto e decisi di stappare la bottiglia. Lo stupore che ho provato nel vedere che tutto rimaneva fermo, mi turba ancora. Avrei voluto con tutta me stessa che quel tempo passato a credere avesse avuto un motivo magico nascosto. Una magia travestita da favola, ma che in realtà è concreta e ti travolge la vita. E invece no, son rimasta lì, con un pugno di mosche, anzi un pugno di cagnolini di vetro che non volevano uscire dal loro incanto.

E mi domando ancora se ho solo sbagliato il tempo per aprire il mio vaso di Pandora. E mi domando anche perché, da allora, la ricerca della verità, la conoscenza, il reale contano per me più della sofferenza che subisco nell'incontrare la disillusione.
Ma la rabbia, la rabbia di tenere in mano qualcosa che non respira più perché respirava solo attraverso di me, mi fa male, ancora. Male come il rumore del vetro infranto. Come il freddo immotivato in un giorno d'aprile.

giovedì 12 aprile 2012

Povertà ricca

La politica da sempre mi interessa e mi strema, mi innervosisce, mi fa piangere. E non è banale. C'è un perché.

Ritorno dei vecchi tempi. Un'anziana signora che ricordo così da quando avevo dodici anni: bassa, rugosa, occhiali scuri ambrati, vestiti usurati, denti finti ben in vista negli scoppi di risate. Non sposata. Ha passato la vita a fare le pulizie per molte persone, ad accompagnare anziani ai giardini, a chiacchierare. A dare, si potrebbe dire.
Voce decisa, forte e un po' acuta. Ironia disillusa tra il fiume di parole. Tanto che da piccola temevo di rimanere intrappolata nelle sue visite che duravano ore. Vive da tempo in una vecchia casa popolare da cui hanno tentato di cacciarla, lasciandola fuori casa diversi mesi ospite qua e là. Almeno qualcuno deve averla ricambiata. Non le è mai mancato un pensiero per le persone che conosceva. Una telefonata e subito dopo una visita. Ricordo vagamente il passato. Confuso.
È rivederla che mi ha riportato un magone al cuore che non se ne andrà.
Entra in casa, curva, stretta al cappotto. Si siede e appena sguscio nella stanza mi chiama ingegnere, ancora prima di guardarmi il viso. Si scusa di non aver terminato le scuole elementari. Le sorrido, mi stringe la mano. La bacio e mi augura felicità. Mi siedo. L'ascolto mentre la lascio parlare con mia mamma. Ascolto, intervengo solo se necessario ma, così spesso, non lo è.
Racconta della bicicletta che non può più usare, del suo cuore che le fa gli scherzi. Del cardiologo che le consiglia un'operazione necessaria, ma le dice anche che non può, perché è sola e non la riuscirà ad affrontare senza nessuno che se ne prenda cura. Così le scrive su un foglio che è lei a rifutare l'intervento. Lei firma. Ride mentre dice che tanto, tutti lì si va ed indica il soffitto. Quando sarà sarà.
È lì che inizia a salirmi un magone sinistro, profondo, che non mi fa stare seduta comoda sul comodo cuscino della mia sedia. Non è tanto l'idea della morte, dei problemi. È qualcosa di più sottile e profondo.
Intanto lei continua, racconta. In questo periodo fa compagnia ad un 94enne che cammina meglio di lei, dice. Lo fa finché ce la fa, non potrebbe. Spera solo di non accorgersene quando se ne andrà. E mi immagino questo vecchio magro, da sempre benestante, dignitoso, che le cammina accanto, vecchia, affaticata, dignitosa e senza un soldo.
Qualcosa mi sale dalla gola, ma lo fermo e resto in ascolto. Mi aggrappo al tavolo. Un po' mi sistemo ancora sulla sedia, un po' gioco con un centrino fatto all'uncinetto da mia mamma. Pare di avere in mano il passato e invece semplicemente non c'è più. Si parla delle differenze e le ingiustizie, di povertà e ricchezza, di come suo nonno con la casa di pietra faticò a sposare la moglie che viveva in una vecchia casa di canne perché la sua famiglia rifiutava d'accettare. Tutto diverso allora e così uguale. La povertà. Quanto la temiamo e quanto ci si infila dentro senza chiedere. Tra il benessere e la superficialità in cui ci culliamo, rifiutandola a singhiozzo.
Mi sembra di sentir parlare una povertà dignitosa che troppe volte dimentico tra facili discorsi sulla crisi e i problemi che ora mi sembrano così sciocchi e finti.
Ed eccola lì. Mi allunga una busta, scritta con precisione. Si scusa ancora per come scrive ed aggiunge che voleva fare l'avvocato da bambina, sì. Senza studiare. Ride di gusto: "Si può mai far l'avvocato senza voler studiare?!" Abbassa la testa, mi sento a disagio con me per tutta quella dignità che mi abbraccia. Mi sento a disagio con le notizie di lauree comprate e tutto, tutto quello che so e non so di questa società e del baratro in cui naviga incosciente.
Il magone si acuisce alla gola e allo stomaco. Mi restano dei sorrisi malinconici di comprensione che sono solo specchi su cui mi arrampico senza far presa. Vorrei frantumarli, ma non ci riesco.
Apro la busta e il biglietto. Cento euro scivolano dal biglietto sul tavolo scuro di legno e ammutolisco. Guardo mia mamma e lei inizia ad accatastare parole, mentre la mia mente combatte duro col cuore e non trova pace.
Accettare o rifiutare han lo stesso sapore amaro.
Non tocco nemmeno quei soldi, leggo il biglietto. Lo rileggo quattro o cinque volte. Ringrazio aggiungendo la frase più scema che esista:
"Non serviva tutto questo, davvero. È troppo".
Lei insegue un suo discorso invisibile e lontano, continua a scusarsi per la sua ignoranza con parole che mi appiattiscono al mio io più profondo e mi ci lasciano abbracciata per non sentire il senso di vertigine. Rileggo. Lei prende la busta, il biglietto e i soldi. Richiude tutto e lo appoggia al tavolo.
"Avessi potuto avrei messo di più. Ma non posso e le fiorerie erano chiuse".
Così la parte della mia mente che ama la giustizia ed è contro le differenze accetta con un sorriso, fingendolo meno malinconico. Si alza, ora. Va dal medico. Le stringo la mano. La mia è molto più fredda, non lo so perché, sono calorosa di solito. La bacio di nuovo e la guardo andar via, le mani in mano. Le mie, che non so dove mettere.

E non so che senso ha la Vita e l'Amore che la sballottola da una dimensione all'altra. Quel senso di pianto che mi è rimasto dentro, una volta chiusa la porta, mi fa pensare che si impigli, l'Amore. Che tu voglia o no ti si impiglia addosso, dappertutto, tanto che non sai nemmeno dove metterlo. E quando te lo affidano così, senza perché - come è giusto che sia - è miracoloso; ti sovrasta, perché non puoi non prendertene cura, anche quando non sai come fare. E non puoi nemmeno non darlo, quando davvero lo provi e ce l'hai dentro. E l'Amore è così oltre i confini che chiamiamo confini, da spingerti verso l'esterno. Devi uscire. Da te. Esci a parole che spostano l'aria, a singhiozzi, a risate miste a paura, a lacrime con cui vorresti lavare il mondo.
E invece quel salato pulisce solo gli occhi. I nostri. Che guardano in modo nuovo.

È così che si rinasce?