lunedì 27 agosto 2012

Sinonimi e contrari

Mi appartiene ciò che non ho,
mi possiede ciò che sa stare altrove.
Vivo in luoghi che non ho mai visto,
mi conoscono anime che non mi hanno interrogata.

Rido di gusto per ciò che non vuol farmi divertire,
mi manca quello che mi sta tra le mani.
Mi nutre quel che non ho potuto mangiare,
mi disseta l'acqua scivolata tra le dita.

Rabbrividisco a ciò che non mi tocca.
Ascolto il silenzio, di tanto in tanto.


domenica 10 giugno 2012

This must be the place

Volevo scrivere del terremoto, del master in corso, di emozioni, di fatti ed auto gialle.
Ed invece sto qui, con un'idea strana di contrasto, di opposti che si attraggono, di contrapposizioni che si inseguono come l'entusiasmo incosciente segue la paura paralizzante. E si fanno Uno.
Sono qui con coppie di pensieri a braccetto, che niente hanno a che spartire l'uno con l'altro:
merendine e pane semplice, campagna e grattacieli, desolazione e movida, malattia e leggera superficialità, musica e vuoto, silenzio e baccano, animali e lastre di lamiera, fessure e lucchetti, sogni ed illusioni.
Un sacchetto unico. Dividere, ordinare, pulire, per poi accorgermi che tutto sta nello stesso sacco di iuta, in cui si mescola affetto e rancore, pensiero e ignoranza, curiosità ed apatia.
La sensazione netta che le divisioni, le definizioni e i concetti non siano che sciocche parole astratte, concretizzabili, ma senza senso.

Gli occhi di uno sfollato, il portafoglio gonfio di un manager, le mani di un bambino a scavare nel cassonetto, le gambe di un pazzo, i pensieri di un paralizzato, i dubbi dei vincenti, le piccole certezze conquistate tra un fallimento e l'altro. Le certezze sgretolate, l'arroganza insensibile, la povertà ricca e quella arricchita e persa. La serenità ritrovata d'improvviso, dietro una curva, al pensiero di travi di legno di mansarda e tavoli spaziosi di fantasia. I soldi e la carta macinata a striscioline. I parcheggi vuoti e le buche profonde. Gli eroi, gli assassini con un perché e quelli senza scuse, i vigliacchi, gli eterni sinceri. Le bugie tra le righe e quelle che implorano verità. La luce al mattino che si diffonde inesorabile ed è giorno. La notte che ci oscura i colori, senza cancellarli. Un mondo che ci accoglie con meraviglia tenera, che non piange di fronte alla morte, né esulta senza controllo di fronte alla vita. Lacrime e sorrisi sono solo nostri.
O solo non conosciamo troppi linguaggi e ci sentiamo sensibili, quando semplicemente non capiamo e ci sfugge il senso di questo minestrone.
O solo niente. O solo tutto.


C'è che penso che ci sia posto per tutto. Per tutti. Qui nel mondo, qui dentro di noi. Posto per sentirci vivere bene e godere follemente del bene che osserviamo, a cui possiamo partecipare o solo sfiorare. C'è posto.
Ma a capire qual è il nostro, a smussare gli spigoli, ad amare veramente ci mettiamo una vita. O due. O chissà quante ce ne serviranno per aprire gli occhi nel presente e dire: "Ancora!"

domenica 22 aprile 2012

Oh, rabbia!

Da piccola giocavo molto coi soprammobili. In salotto c'era una bottiglietta di vetro, tipo quelle con la nave, che ti domandi come sia finita lì. C'erano tre cagolini di vetro, in fila, dentro. Un oggetto orrendamente kitch, non lo nego, ma l'adoravo. E adoravo il piccolo tappo di sughero che la chiudeva.
Probabilmente l'intenzione era molto evidente, perché mi dissero di non toccare quel tappo. Che se l'avessi fatto i tre cagnolini sarebbero diventati sempre più grandi, dimensioni naturali, e sarebbero fuggiti.
Ci ho creduto. Ma soprattutto quel tappo l'ho lasciato stare per anni. Non temevo che fuggissero. Temevo tanto che non lo facessero.
Ho lasciato quella favola abitarmi molto a lungo, anche quando ormai era una sciocchezza pure per me, almeno a parole. Perché nei fatti c'era una minuscola e tenace parte dentro che voleva crederci ancora un po'. Solo da adulta mi capitò in mano quell'affare senza senso che amavo tanto e decisi di stappare la bottiglia. Lo stupore che ho provato nel vedere che tutto rimaneva fermo, mi turba ancora. Avrei voluto con tutta me stessa che quel tempo passato a credere avesse avuto un motivo magico nascosto. Una magia travestita da favola, ma che in realtà è concreta e ti travolge la vita. E invece no, son rimasta lì, con un pugno di mosche, anzi un pugno di cagnolini di vetro che non volevano uscire dal loro incanto.

E mi domando ancora se ho solo sbagliato il tempo per aprire il mio vaso di Pandora. E mi domando anche perché, da allora, la ricerca della verità, la conoscenza, il reale contano per me più della sofferenza che subisco nell'incontrare la disillusione.
Ma la rabbia, la rabbia di tenere in mano qualcosa che non respira più perché respirava solo attraverso di me, mi fa male, ancora. Male come il rumore del vetro infranto. Come il freddo immotivato in un giorno d'aprile.

giovedì 12 aprile 2012

Povertà ricca

La politica da sempre mi interessa e mi strema, mi innervosisce, mi fa piangere. E non è banale. C'è un perché.

Ritorno dei vecchi tempi. Un'anziana signora che ricordo così da quando avevo dodici anni: bassa, rugosa, occhiali scuri ambrati, vestiti usurati, denti finti ben in vista negli scoppi di risate. Non sposata. Ha passato la vita a fare le pulizie per molte persone, ad accompagnare anziani ai giardini, a chiacchierare. A dare, si potrebbe dire.
Voce decisa, forte e un po' acuta. Ironia disillusa tra il fiume di parole. Tanto che da piccola temevo di rimanere intrappolata nelle sue visite che duravano ore. Vive da tempo in una vecchia casa popolare da cui hanno tentato di cacciarla, lasciandola fuori casa diversi mesi ospite qua e là. Almeno qualcuno deve averla ricambiata. Non le è mai mancato un pensiero per le persone che conosceva. Una telefonata e subito dopo una visita. Ricordo vagamente il passato. Confuso.
È rivederla che mi ha riportato un magone al cuore che non se ne andrà.
Entra in casa, curva, stretta al cappotto. Si siede e appena sguscio nella stanza mi chiama ingegnere, ancora prima di guardarmi il viso. Si scusa di non aver terminato le scuole elementari. Le sorrido, mi stringe la mano. La bacio e mi augura felicità. Mi siedo. L'ascolto mentre la lascio parlare con mia mamma. Ascolto, intervengo solo se necessario ma, così spesso, non lo è.
Racconta della bicicletta che non può più usare, del suo cuore che le fa gli scherzi. Del cardiologo che le consiglia un'operazione necessaria, ma le dice anche che non può, perché è sola e non la riuscirà ad affrontare senza nessuno che se ne prenda cura. Così le scrive su un foglio che è lei a rifutare l'intervento. Lei firma. Ride mentre dice che tanto, tutti lì si va ed indica il soffitto. Quando sarà sarà.
È lì che inizia a salirmi un magone sinistro, profondo, che non mi fa stare seduta comoda sul comodo cuscino della mia sedia. Non è tanto l'idea della morte, dei problemi. È qualcosa di più sottile e profondo.
Intanto lei continua, racconta. In questo periodo fa compagnia ad un 94enne che cammina meglio di lei, dice. Lo fa finché ce la fa, non potrebbe. Spera solo di non accorgersene quando se ne andrà. E mi immagino questo vecchio magro, da sempre benestante, dignitoso, che le cammina accanto, vecchia, affaticata, dignitosa e senza un soldo.
Qualcosa mi sale dalla gola, ma lo fermo e resto in ascolto. Mi aggrappo al tavolo. Un po' mi sistemo ancora sulla sedia, un po' gioco con un centrino fatto all'uncinetto da mia mamma. Pare di avere in mano il passato e invece semplicemente non c'è più. Si parla delle differenze e le ingiustizie, di povertà e ricchezza, di come suo nonno con la casa di pietra faticò a sposare la moglie che viveva in una vecchia casa di canne perché la sua famiglia rifiutava d'accettare. Tutto diverso allora e così uguale. La povertà. Quanto la temiamo e quanto ci si infila dentro senza chiedere. Tra il benessere e la superficialità in cui ci culliamo, rifiutandola a singhiozzo.
Mi sembra di sentir parlare una povertà dignitosa che troppe volte dimentico tra facili discorsi sulla crisi e i problemi che ora mi sembrano così sciocchi e finti.
Ed eccola lì. Mi allunga una busta, scritta con precisione. Si scusa ancora per come scrive ed aggiunge che voleva fare l'avvocato da bambina, sì. Senza studiare. Ride di gusto: "Si può mai far l'avvocato senza voler studiare?!" Abbassa la testa, mi sento a disagio con me per tutta quella dignità che mi abbraccia. Mi sento a disagio con le notizie di lauree comprate e tutto, tutto quello che so e non so di questa società e del baratro in cui naviga incosciente.
Il magone si acuisce alla gola e allo stomaco. Mi restano dei sorrisi malinconici di comprensione che sono solo specchi su cui mi arrampico senza far presa. Vorrei frantumarli, ma non ci riesco.
Apro la busta e il biglietto. Cento euro scivolano dal biglietto sul tavolo scuro di legno e ammutolisco. Guardo mia mamma e lei inizia ad accatastare parole, mentre la mia mente combatte duro col cuore e non trova pace.
Accettare o rifiutare han lo stesso sapore amaro.
Non tocco nemmeno quei soldi, leggo il biglietto. Lo rileggo quattro o cinque volte. Ringrazio aggiungendo la frase più scema che esista:
"Non serviva tutto questo, davvero. È troppo".
Lei insegue un suo discorso invisibile e lontano, continua a scusarsi per la sua ignoranza con parole che mi appiattiscono al mio io più profondo e mi ci lasciano abbracciata per non sentire il senso di vertigine. Rileggo. Lei prende la busta, il biglietto e i soldi. Richiude tutto e lo appoggia al tavolo.
"Avessi potuto avrei messo di più. Ma non posso e le fiorerie erano chiuse".
Così la parte della mia mente che ama la giustizia ed è contro le differenze accetta con un sorriso, fingendolo meno malinconico. Si alza, ora. Va dal medico. Le stringo la mano. La mia è molto più fredda, non lo so perché, sono calorosa di solito. La bacio di nuovo e la guardo andar via, le mani in mano. Le mie, che non so dove mettere.

E non so che senso ha la Vita e l'Amore che la sballottola da una dimensione all'altra. Quel senso di pianto che mi è rimasto dentro, una volta chiusa la porta, mi fa pensare che si impigli, l'Amore. Che tu voglia o no ti si impiglia addosso, dappertutto, tanto che non sai nemmeno dove metterlo. E quando te lo affidano così, senza perché - come è giusto che sia - è miracoloso; ti sovrasta, perché non puoi non prendertene cura, anche quando non sai come fare. E non puoi nemmeno non darlo, quando davvero lo provi e ce l'hai dentro. E l'Amore è così oltre i confini che chiamiamo confini, da spingerti verso l'esterno. Devi uscire. Da te. Esci a parole che spostano l'aria, a singhiozzi, a risate miste a paura, a lacrime con cui vorresti lavare il mondo.
E invece quel salato pulisce solo gli occhi. I nostri. Che guardano in modo nuovo.

È così che si rinasce?

giovedì 29 marzo 2012

Con viva..

.. e vibrante soddisfazione..

 

"La vita è un insieme di avvenimenti di cui l'ultimo può cambiare il senso di tutto l'insieme"
(I. Calvino)

mercoledì 29 febbraio 2012

Tutto scorre: pure noi.

Mi stavo dimenticando. L'adrenalina, la foga, l'aggrapparsi organizzato agli eventi, fino ad affrontarli. L'odore fastidioso del treno e il suo rumore familiare. Il biglietto obliterato e il brivido insensato alla nuca quando passa il controllore. Il percorso lungo un muro che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Che fa tanto Montale, ma qua e là mostra squarci di oltre. La salita, la curva e la fabbrica di studenti, sempre lì col suo parcheggio pieno e facce sconosciute, più giovani.
Come ti senti? Fuori posto? In ritardo?
No, oggi non mi va. L'atrio immenso. Ti possono guardare dall'alto, ma che importa, nessuno mi conosce. Sicura del percorso del passato, esco dall'altra parte, verso un distretto meno frequentato, ma denso di ricordi. Al piano verde, mi avvolge l'aroma di un caffè versato a terra, davanti la macchinetta. Corridoio buio, silenzio. Lunga chiacchierata, ascolto, annoto, capisco, respiro. Di nuovo, respiro, rispondo. Quante cose, quante cose. Eppure non sono così tante. In tanti le hanno fatte senza farsi sopraffare. No, non mi agito oltre, non faccio cadere nulla. Saluto a voce alta e chiara. Un cenno e chiudo la porta.
La biblioteca. Farsi la tessera dopo tanti anni ha un che di buffo. Ora che sta per finire. Ma l'aspetto con pazienza e in cambio ho un libro. Lo tengo tra le mani. La copertina verso di me: non voglio mostrarmi erudita, è solo che non ho uno zaino. Cosa sono e chi sono? Cammino a naso in su, stasera ci saranno tre pianeti allineati con la luna, ma è presto. Cerco d'attraversare, ma demordo e torno indietro scegliendo le strisce e un'altra vecchia conoscenza: il deserto di un centro commerciale vuoto. Quanti pranzi e passeggiate. Amici. Stavo dimenticando il tempo e i pensieri che si erano impigliati e sono ancora tutti lì.
Cammino a casaccio, come facevo a volte, quando avevo tempo da perdere e tempo da far fiorire. Ho deciso che ho tempo da perdere e da cui lasciarmi guidare. Vedo il bar, ma lo scanso. Vado avanti. Atrio vuoto, negozi chiusi, falliti. Uno di telefonia resiste eroico. Vuoto. Una commessa probabilmente racconta su facebook il suo tempo passato ad aspettare. Una coppia di ultra ottantenni si tiene a braccetto. Lei lo rallenta, va verso una panchina e gli dice qualcosa con un fare da bimba. Indica avanti a sé e si sporge verso una vetrina di vestiti da sposa. Sorride. Dice qualcosa. Lui ascolta, la guarda calmo e si siedono. Mi intenerisco, ma vado oltre, decido per le scale mobili. Le ho sempre adorate. Il ronzio di un mondo che si abbassa e un altro che si avvicina. Ehi, ma è un bar? Entro e chiedo un caffè. Mi accorgo di essere nel bar di un multisala. Ma c'era anche un tempo? Sono nel bar di un cinema, senza l'intenzione d'andarci. Bevo, la signora sorride con tutta la giovialità del suo ferrarese che le sfugge dalle labbra. Non posso che sorridere forte anch'io. Altri due anziani, due uomini, stanno entrando. Sembrano conoscere la donna. Scherzano sulla vita che avanza, ma non li ha fregati abbastanza. Che bella luce hanno negli occhi. Un bastone saldo tra le mani del più curvo, l'altro scambia due parole. Tutto è sospeso. Un mondo vuoto, in cui il lavoro è attesa, pazienza. Ci sarà uno stipendio, almeno, per tutta questa solitudine o solo tanto tempo per pensare e scambiare parole, forse. Chissà. Che vuol dire il lavoro, poi? È quel che facciamo? O è più quello che siamo mentre facciamo?
Torno indietro. Scendo. Esco. Guardo negli occhi. L'aria sa di stagno. La riva del fiumiciattolo è sporca e una donna sulla sella della bici si protegge la bocca mentre parla al cellulare. Parla russo, sembra. Chissà da cosa si nasconde. O è solo pudore che ho dimenticato.
Anni e anni. Per cosa, poi? Per godere dello stesso panorama con più quiete, dentro? Lo stesso osservare assente e totale. Insieme. Come se ogni cosa fosse solo al suo posto. E non fosse fuori, ma dentro. In un posto mio. Nostro. Alzo gli occhi. Eccole lì: tre stelle in fila. Che son pianeti. Ma che importa.
È proprio bello, ecco tutto.


mercoledì 22 febbraio 2012

Sempre e per sempre.

Sai, non so che succede quando ti volti con un sorriso, dando per scontato lo sguardo che incrocerai e, invece, incontri uno sguardo estraneo e scostante. Non so cosa si prova, perché ho congelato il momento prima di lasciarmi invadere dal liquido di quell'iniezione letale che si chiama risveglio.

Anni di sonno bonaccione, forse saccente. Quella saccenza bambina che non ti fa cattivo, ma parecchio stupido. Non so nemmeno che vuol dire smettere di pensarti in quel modo antico che ti innalzava a modello, in quel modo spaventato e orgoglioso che non scorgeva difetti, che ti rubava la sguardo e cercava la battuta e le parole giuste per te. Come ammettere che mi è scivolato tra le mani il velo attraverso cui spiavo i tuoi movimenti essenziali? Come accettare d'aver dimenticato il profumo, la consistenza delle magliette rosse e di ogni cosa al suo posto, con quel disordine che ho sempre chiamato arte. No, non ho dimenticato. L'odore d'arancia sui libri divorati, la forza incredibile che non c'entrava nulla coi muscoli, ma li invadeva, a volte, fino a stritolare i miei.
Non so che si prova a perdere, perché mi hai sempre lasciata vincere, con quel fare alieno di chi non ne ha mai avuto bisogno. Le note basse, profonde, quasi stonate - e per questo perfette - a rimbalzare tra i tanti soli sulla tua parete.
Non lo so se era tutto prevedibile, ancora quando strizzavi i peluches sotto l'acqua corrente e stavo lì a guardare ammirata gesti che credevi banali, come quel tuo scorrere tra le storie, quel rivelarmi ingiusto il finale dei gialli, quel gesto automatico che ogni estate mi spezzava il cono mentre mangiavo il gelato, lasciandomi divertita e preoccupata per tutta quella crema tra le dita. Lenta, dicevi. Troppo lenta, invogliavo dispetti d'affetto che da troppo tempo credevo fossero cresciuti, trasformati nel quotidiano grigio che i grandi segretamente si augurano, per sembrare adulti. I colori li stavo per dimenticare, stavo per scordare la macchia bianca su Nuvola e la tavola massiccia che proteggeva i nostri sogni.
Il rosso. Il marrone scuro. La mia pelle che schiariva sotto le tue strette al polso che mi rallentavano la corsa in bici.
Quando hai smesso di fare quel gioco? Quando ho sentito scattare dentro delle energie diverse che mi hanno trascinata altrove e mi hanno chiuso gli occhi? Quando ho preferito chiudere gli occhi?
È che li ho sempre trovati, i tuoi occhi. E le tue mani dentro guanti senza dita, le telefonate, i tuoi messaggi senza articoli, più freddi e poi più rari e poi niente.

Cos'è che mi ha fatto aspettare tanto? Un'illusione? Una certezza? La sensazione, il bisogno di valere senza? Sì, si vale anche senza. Ma senza, che si fa, senza; che valore resta, senza.

Sempre. Questa parola osannata dalle credenze, violentata dall'esperienza.
Sempre. Ho congelato quel momento. L'iniezione è fatta, ma non è in circolo. Non ancora. Prima c'è quel sempre, quell'antibiotico che mi affanno ad ingoiare a fatica, mentre la gola trattiene il pianto.
Sempre. Mi guarirà il sempre? Mi guarirà questa sensazione, prima di lasciarmi invadere dall'amarezza, che non si può frenare per sempre?
Sempre. Ecco, quel che sento ora. Qualcosa resta, sempre, anche ciò che scompare, quel che trasfigura, dentro alle incoerenze, alle cazzate che pian piano sgretolano montagne e le consumano. La verità è che credo che il dolore incolmabile che si prova a volte sia la prova del sempre. Che tu hai quel pezzo di qualcun'altro per sempre e non importa come vada a finire poi. Anche l'altro ne ha uno tuo.
Per sempre. I fatti son quel che sono, istante per istante, ma non si può dir nulla fino alla fine.

Il dolore sta nel sentire la parola fine nel sempre. Un errore d'ascolto.
Il dolore è il nostro sempre travestito da ultima pagina, ma non lo è. Per questo preme tanto da dentro, per questo sembra voler scappare dalla gola, attorcigliando lo stomaco. Per ricordarmi da che parte stare, sciocca e lenta che non sono altro.

Dalla tua, sto. Dalla tua. Sempre.

mercoledì 8 febbraio 2012

Butterfly effect

Sarà vero che una farfalla vive un solo giorno, ma di certo lei non lo sa.

Com'è che noi, che possiamo vivere un solo giorno come cento anni e lo sappiamo, finiamo per scivolare in circoli viziosi e ripetizioni?
Rassicurante. Noioso. Non lo so.
È come se avessimo paura che, vivendo ogni cosa come unica, nuova e irripetibile, moriremmo all'istante. Aspettiamo spesso di essere pronti a cadere, quando invece potremmo concentrarci sul volo.

Che sciocchi bozzoli di seta siamo, a volte.


mercoledì 1 febbraio 2012

M'illudo d'immenso

Ho tenuto nelle vene l'illusione di abbattere l'anemia. Una mezzora al massimo. È durato così poco, ma così intensamente che quasi non importa che fosse un'illusione. Non importa.
Come le lenti a contatto e la sensazione che mi danno di poterci vedere come non ho mai potuto. Come l'illusione che si prova nel costruire qualcosa che si sa a priori, non durerà.
Cosa spinge ad accovacciarsi al freddo gelido raccogliendo la neve tra le mani per costruire un pupazzo di neve?
Forse, in montagna, un bambino può sperare di custodirlo da qualche parte, nasconderlo vicino a quella vecchia baita dove va a finire sempre col nonno, quando gli vuole raccontare una storia. E lì, lo sa, c'è sempre la neve. Ma qui, in piena pianura. L'ultima volta che ho visto questa neve, non ne ero cosciente. Cinque mesi e guance rosse. Sorrisi riflessi. Lo sguardo di mia sorella sempre ad accarezzarmi i pensieri fluidi, di una vita al via. Nevicava moltissimo, mi dicono. Tanto che sembrava non voler smettere e far dimenticare quegli inverni grigi, umidi e appena freschi, che ho sempre conosciuto.
Ma cos'è che spinge a modellare qualcosa con amore, sapendo che si spegnerà? Che rimarrà presto o tardi una pozzanghera di se stesso?
Camminavo tra le strade, oggi, incapace di trattenere sorrisi. Le persone che discutono per il ghiaccio e le seccature, le auto che rallentano, il ritardo che non demolisce il mondo, come sembra debba fare inevitabilmente. La fretta che si sgretola da sola, in se stessa, incapace di darsi un senso. I passi cauti, i bambini euforici.
E poi quei due fratelli. Lei, più grande, concentrata sulla forma del pupazzo, lui, tutto imbacuccato, a cercare oggetti adatti e neve buona. Non c'è futuro che tenga, delusione, errore. Non importa. Si deve assaporare quell'istante. Nient'altro.

Il silenzio che si avverte quando scende la neve è diverso. Anche l'aria profuma in modo particolare. È un profumo che ossigena la speranza. E noi? Noi ci sentiamo di colpo presenti. Non c'è l'inerzia abituale: ci vuole concentrazione. La neve ci distrae da noi stessi, ci  fa alzare la testa, tirare fuori la lingua e rabbrividire quando sentiamo che un fiocco ci raggiunge le labbra. A me fa sorridere immaginarmi dall'esterno mentre sembro masticare come il pane dei fiocchi impalpabili.
Ci illude, la neve. Ci illude di coprire ogni cosa allo stesso modo, di cambiare il colore del quotidiano; ci ruba sorrisi e anche un urlo poco signorile prima di sbatterci sopra goffamente per uno scivolone. Ci illudiamo e lo sappiamo. Vogliamo illuderci, ne abbiamo bisogno ogni tanto. Ci crucciamo tanto per il futuro e rimuginiamo sul passato, poi arriva un'illusione qualsiasi e, come un bambino, la puoi raccogliere, prendertene cura, anche se ti si scioglie tra le mani. Anche se ti trovi le mani viola e i vestiti bagnati.
Perché in fondo non è molto importante che si scioglierà presto. Vediamo chiaro il presente, quando fanno capolino certe illusioni. Come quando svieni, ma ti senti bene, come quando corri e non senti la fatica, come quando il tuo corpo rigetta una cura, ma inizia a guarire da solo, a partire dai tuoi occhi. Che questa volta ci credono.


sabato 14 gennaio 2012

Stelle danzanti

La confusione nasce in genere da un eccesso di informazioni, difficilmente dalla mancanza.


Nascita. Stimoli. Educazione. Carattere. Valori. Errori. Senso di colpa. Punizioni. Paura. Voglia. Difficoltà. Sogni. Blu. Futuro. Curiosità. Legami. Strappi. Cuciture. Cicatrici. Coltelli. Forbici. Lamette. Amici. Amore. Distanze. Giuste. Sbagli. Insicurezza. Bisogni. Attaccamento. Distacco. Volontà. Personalità. Resa. Incomprensione. Pensare. Troppo. Mente. Mente. Dubbi. Sollievi. Ripensamenti. Ritorni. Abbandoni. Silenzio. Morte. Pace. Rinascita. Quotidiano. Cambiamento. Piccole cose. Ironia. Fame. Cucinare. Cibo. Gusto. Piacere. Sesso. Scambio. Comunicazione. Diretta. Direzione. Strade. Infinite. Scelte. Libertà. Limiti. Binari. Onestà. Domande. Eccedere. Superamento. Sguardo. Indietro. Ora. Avanti.
Non. Importa.


Ci riesco a guardarmi in faccia quando sono contenta. Osservarmi ridere con gli occhi ed ogni centimetro di pelle, ascoltarmi usare le parole giuste per quel momento, sentire che ho capito, toccare con perfetta sensibilità, deglutire di gusto. Riesco anche a guardarmi affondare; non mi piace, non mi piaccio, ma so vedermi sconvolta, stravolta. Seria e perduta. Non mi piace, ma alzo lo sguardo. Quello che sento mi fa reagire, mi ascolto volentieri anche dal gradino più basso. Ascolto deliri. E più escono e più se ne vanno. Ciò che si attraversa smette di ossessionare. Sento cambiare il mio sapore. Sento andarsene la realtà. So perdere i sensi in modo controllato, so persino rassicurare chi si spaventa della distanza incolmabile che si crea quando qualcuno ti sviene tra le braccia. Sorrido e mi concentro.
Sento il mio corpo stare molto bene e stare molto male. Mi preoccupo. Mi ritrovo.

Ma tra i due estremi?
C'è quella sfilza di quasi. Quasi arrivata, quasi realizzata, quasi finito, quasi capito. Di forse. Forse è così, forse va bene, forse è un errore. Ne vale la pena? E se non funziona? E se esagero? E se è inutile? Catena di pensieri negativi inesistenti, impalpabili, insensati. Viscosi quanto le illusioni del piacere senza impegno, del traguardo senza fatica.

Tra i due estremi c'è il reale, lo scontro, l'abbraccio, il dialogo. Un po' di dolore. Un po' di piacere. La rivolta. Il cambiamento. Tra i due estremi c'è l'equilibrio. Instabile. Dondolio di bellezza e difetti, di conquiste e frustrazioni. C'è tutto quello che ci sta. Anche le pieghe. Gli incidenti. La meraviglia. Il momento perfetto. Le ore perse. Il sonno andato. Le occhiaie. Riassestamento. Il senso che prende forma e chiede meno attenzioni.

Certe domande scavano talmente a fondo che ti trovi nuda e non hai freddo. Certe domande ti impediscono di mentirti ancora. Non puoi più. Neanche volendo.


Dopo il caos arriva la stella danzante?