lunedì 28 novembre 2011

Mayday

Ci sono istanti in cui sono un'indistruttibile scatola nera, molto più propensa ad afferrare i pensieri degli altri custodendoli al sicuro, che non a comprendere il senso della mia esistenza oscura. Per cui passo quel tempo nel buio dei miei occhi strizzati, le unghie piantate sul palmo, a pregare che l'aereo non precipiti. Consapevole che se cadrà sfumeranno sulla sua scia dei sogni che amo e che mi riempiono senza che li abbia ancora sognati o raccontati. Consapevole che se quell'aereo non cadrà nessuno squarcerà mai le mie pareti e resterò intonsa e sconosciuta, pronta per un altro viaggio.

Poi un dito si lascia sorprendere dal morso del mio bestio, annuso il profumo del ragù dalla cucina ed il vociare indistinto dei miei. Un'amica mi telefona, uno mi sorride da distante ed altri stanno in silenzio. E li penso e mi pensano. La nebbia, per questa volta vinta dal sole, si fa dimenticare e strimpello una vecchia canzone, con le dita che reclamano i calli che hanno perduto. E non mi sento così indistruttibile o confinata, né così sola. Ma in viaggio, questo sì. Ed è un bel viaggio.

venerdì 25 novembre 2011

Revolución

Qualche giorno fa, ascoltando il sociologo Giuseppe De Rita ad Otto e mezzo, mi si son chiarite dentro delle riflessioni, che avevo in testa da un po' di tempo, sul perché la popolazione italiana continua a non reagire, a non fare la sua rivoluzione, a non lottare per la propria dignità.
De Rita parla di imborghesimento senza borghesia. Come dire: siamo poveracci trasformati in borghesi solo grazie a cellulari, schermi al plasma e ad un'auto di proprietà. Poveracci impastati di status symbol più o meno costosi ma diventati, fino a qualche anno fa, alla portata di molti. Ora il risveglio tragico dal sogno.

L'impressione che ho è che questa rivoluzione non s'ha da fare, perché nessuno ha voglia di farla, di spezzarsi un'unghia, di alzarsi dal divano, rompere la routine, di restare senza pc e magari senza cellulare, pur di innescare il cambiamento. Mi sembra di sentire l'eco della generazione dei miei genitori, che ha fatto conquiste per se stessa. Una rivoluzione, ora, sembra ammettere che i passi in avanti non sono stati decisivi, né così incisivi. E poi la rivoluzione è roba da morti di fame, è un affare che smuove dei muscoli che si stanno rattrappendo e appiccica fastidiosamente i vestiti alla schiena. Un brutto affare che scuote dalle viscere e toglie il sonno in nome di un sogno. Chi ci crede più? Non abbiamo più il fisico per un altro '68. Abbiamo già dato. E toccherebbe a noi, alla mia generazione, cresciuta ascoltando i consigli - a volte confusi - di chi ha conosciuto la povertà e di colpo si è ritrovato nel boom economico. Noi, che dovremmo lanciarci con le consueta avventatezza dei giovani, cresciuti in un limbo tra prudenza verso pericoli ormai obsoleti e la furbetteria incalzante negli anni dell'economia del consumo. Paure un po' inculcate e un po' naturali, certezze mal riposte. Generazione, la mia, tenera, inconsapevolmente ingrata, sballottata tra ciò che si può e quel che si deve, ma soprattutto quel che piace - che bisogna far solo quello che ci piace - ma non troppo che poi si diventa egoisti, ma non troppo poco che poi pare di tornare ai sacrifici di stampo cristiano, che proprio non si possono vedere. E via discorrendo. Noi splendido risultato di una schizofrenia splendida, in parte causata dall'inesorabile velocità di un progresso che ci ha travolti ben prima di conquistarci. 
Vince chi corre, non chi si domanda perché lo stiamo facendo e si ferma a pensare. E a correre ci si accorge solo di non poter arrivare sempre primi, a meno che non si inizi a spingere o fingere o accontentarci di non arrivare mai alle mete, spesso proposte da qualcun'altro. La rivoluzione non nasce spontanea in una generazione con un peccato originale sulle spalle: la fortuna di avere tutto e non sapersene che fare, una generazione che spesso tutto non lo ha voluto, ma che se l'è trovato tra le mani lo stesso.

Qui, proprio qui, nell'infanzia della mia generazione, piazzateci poi un tizio con grossi complessi sul suo aspetto fisico, che sfoga la frustrazione rubacchiando da imprenditore e infogna con anni e anni di idiozie il Paese. Convincendo una massa enorme di persone che va tutto bene, finché va bene a te. Che rubare è legittimo finché non ti beccano. Che, se ti beccano, basta negare fino alla morte e tutto s'aggiusta. Il genere di panzane a cui crede uno struzzo che infila la testa nella sabbia e crede di non essere visto. Ma c'è sempre un risveglio. Se poi da dietro arriva un gorilla ingrifato, il risveglio diventa amaro e molto doloroso.

E poi ci sono i piccoletti. La nuova generazione che mi si è aggrappata a gambe, braccia e cuore, quando sono andata a trovarla, la generazione che mi insegue con un origami in mano e lascia biglietti giganti con cuori e stelline, pregandomi di tornare. Faccine serie e concentrate che vogliono solo che tu stia lì. Puoi essere chiunque, ma devi dimostrarglielo che sai voler bene, se no sei solo un altro adulto confuso da accettare con rassegnazione, ché dagli esseri umani tutto può essere accettato e assorbito, ma ha i suoi effetti. Quella stessa faccia che ogni bimbo fa, quando si accorge che l'essere umano non è affatto al centro come si dice. Ma lo si dice ancora? Una generazione razionale, con spolverate di cinismo spicciolo e disillusione che sa di delusione, specchio di adulti che sorridono a comando e spengono la speranza prima che arrivi agli occhi, prima di lasciarcisi toccare il cuore. Anche questa una generazione che ha avuto tutto e, come la mia, non avrà una pensione, né certezze. Né interiori né esteriori.
Anche da questa generazione ci si aspetta la rivoluzione un giorno. Ma come? Perché? 

Ogni generazione sente, in fondo, di essere un po' in trappola, colpevole senza ragione e lotta per le proprie libertà. Chi un tempo aveva sul tavolo ideali e sogni e un futuro, però far l'amore era roba da agenti segreti. Una caviglia scoperta e girava la testa e il peccato e la passione e la mini e i reggiseni lanciati. Ma poi, ma poi c'è chi c'è nato senza quei freni e gli sfugge il senso di quel cambiamento e sta scavando oltre. Chi, giovane oggi, si ritrova così abituato al nudo imposto da chi lo bramava, da non rabbrividire nemmeno più al pensiero dell'intimità. Che se ne fa di un nudo chi ha perso i cinque sensi? Il sesso, che si fa merce anche nel quotidiano, non accarezza le cosce, non sfiora la fantasia.
La rivoluzione, oggi, dovrebbe toccare le emozioni, la voglia di aver sogni impossibili, di incantarsi e rallentare. Ascoltarsi respirare col proprio ritmo e ingoiare i fallimenti, abbracciare il piacere subitaneo e sincero, quello che ti sale dalle dita dei piedi, lungo i polpacci tesi e l'inguine pulsante, circonda l'ombelico, facendo battere il cuore e gonfiare i polmoni, allarga le spalle e muove le braccia e rilassa il collo, su, lungo tutta la spina dorsale e arriva alla testa, brulicante di desiderio e ragione e si specchia nello sguardo che impara a guardare il mondo per la prima volta.
La vera rivoluzione sta nel sorridere prima ancora di capire il perché. Sta nel volersi cambiati. Così tanto da cambiarci sul serio.


mercoledì 23 novembre 2011

Underneath

Uno ascolta/legge questa notizia e che pensa? Punto di vista mio, ma faceva più o meno così:

Tre ventenni o poco più, accusati dello stupro di una minorenne, vengono condannati ad otto anni. Siamo a Velletri, vicino a Roma. La marmaglia di parenti e amici che si portano appresso in tribunale devastano l'aula, aggrediscono agenti e giudici, spaccano vetrate, fanno volare i cestini della spazzatura. Parenti dei tre ragazzi, sì, non quelli della ragazza. Arrestate venti persone, perché non c'è modo di placare la rabbia inconsulta in altro modo.

Allora, io che dovrei dire? Che va così, che c'è gente maleducata e irosa che non sa stare al suo posto?
O che la violenza, l'idiozia, la delinquenza perbene, quella del "figlio di buona famiglia" come viene detto, non è che il risultato di una rivoltante e abissale ignoranza?

Cronaca, semplice cronaca di un'idiozia.
Quello dei tre ragazzi è reato. Punito con otto anni. Tre ragazzi che non hanno capito un cazzo del rispetto della vita altrui, della distanza, della socialità, dell'amore e della dignità propria e altrui. Della donna. Nella società che fa cappottini per cani e bada alla cecità dei panda non c'è spazio per la spiegazione agli esseri umani del valore degli esseri umani. Accanto ai tre ragazzi l'idiozia, il delirio brutale di questo brulichio di "adulti" che spaccano tutto per difenderli. Difenderli? Li rovinano ancora di più. Spaccano tutto, rendono assurda la sentenza, rovesciano il senso della giustizia, negano la verità ai propri figli, li abbandonano in una galera senza la minima possibilità di capire l'enorme abominio che c'è nello stupro, nel violare una persona, una vita. La ragazza non è morta, certo. Dovrà convivere con un macigno che in un modo o nell'altro affronterà. O no. Non lo sappiamo, né a nessuno importerà saperlo, se non chi la ama, quella ragazza. Ed è pure rumena.
E l'Italia accogliente, solare, aperta e senza pregiudizi, è tornata indietro anche su questo fronte. Mi domando come, una società che intende liberarsi dell'altro, del diverso, allontanarsi dal suo sud, arricchirsi in modo ingiusto e poco equo, possa difendere dalla violenza una donna che ogni giorno viene discriminata dalla società stessa. Denigrata. Su cui si fa dell'ironia prudereccia per nascondere reali cinismo, ignoranza e maschilismo sempre più accettati in modo arrendevole.

Dalle basi bisogna ricominciare. Dalle basi.
La rivoluzione vera non partirà mai se non ci sono delle persone che sentono di aver perso qualcosa. Il rischio della nuova generazione è che non ricerchi più il rispetto e la dignità. Non per superficialità o maleducazione, ma perché nessuno glieli ha mai fatti conoscere davvero. Mi sa che di strade non ce ne sono molte, siamo talmente alle strette.. per cui l'unica cosa è ritornare agli ingredienti base: a prenderci cura dei valori, prima che ci si dimentichi cosa vuol dire sentirsi persone dignitose in una società civile.

Tutto il resto verrà dopo.


lunedì 21 novembre 2011

Meteo senziente

Uno dovrebbe domandarsi la ragione del proprio stato d'animo. Non analizzarlo e scompigliarsi di ispide domande scomode e senza risposta, ma domandarselo spesso e volentieri sì, che spesso c'è una risposta.

"Come mai così seria, oggi?"
"Seria? Io? Ma hai visto che faccia avevi tu quando hai guardato la mia? No, non l'hai vista, ma l'ho vista io. Marò, mi son sentita deportabile a Lourdes."

"Com'è quel cipiglio grigiumoso?"
"Hai guardato dalla finestra? No, perché qui guardi fuori e, se vedi qualcosa, è grigio. Se no non vedi proprio nulla, baratro plumbeo sospeso e umidiccio tra le ossa e l'umore. E la nebbia ti si trasla nel cervello. Che non sarebbe poi una novità. Ma ti rendi conto che altrove c'è il sole anche in autunno e inverno, ogni tanto? Rendiamoci conto!"

"Che cera. Ti sei svegliata col piede sbagliato?"
"Capisco che non puoi notare: fa freddo ed ho le braghe lunghe. Ma se vedessi l'ematoma violaceo che ho sulla coscia, capiresti che non è il piede sbagliato il problema, ma che sbaglio le misure, cazzo. Sbaglio le misure e sbatto come una pallina impazzita su tutto ciò che è spigoloso. I bordi arrotondati chi credi che li abbia smussati? Chissà perché imparo ad evitarli appena perdono d'efficacia.

"Ma stai piangendo o ridendo? Non si capisce."
"Ma non lo so, non lo so! La sacker mette sempre di ottimo umore [rido di gusto]. La laurea bussa alla mia porta sprangata e, la solita distratta, mi son chiusa dentro perdendo le chiavi [piango tentando di uscire dalla finestra]. Il mio bestio mi fa le fusa quando gli porgo del cibo, invece di strapparmelo semplicemente dalle mani: impara a fingere affetto, che tenerezza! [rido al 'piutost che gnent l'è mei piutost'].
Berlusconi non è più presidente [rido sguaiatamente]. L'Italia è allo scatafascio che fra un po' se ne accorgono anche i leccaculo [mi dispero]. Guardo Crozza che imita Brunetta e Bossi [rido divertita]. Ascolto Brunetta e Bossi originali [lacrime rabbiose: son molto peggio dell'imitazione].

Farsi troppe domande è deleterio, quanto darsi troppe risposte idiote.
Giuro. Non lo guardo più il Meteo del Tg1.


martedì 15 novembre 2011

Affinità elettive

Ci vuole sempre tempo per tutto, attesa e pazienza. Impegno e fatica. Poi bastano due giorni e ne sembrano passati mille. Quando la vita ti stravolge è sempre in un attimo, in un incontro atteso da tempo, ma che ti sorprende come una risata.
Un istante te ne stai in auto, con un passapatate in una mano e del pampepato nell'altra e poi sei una dei tre folli alla mostra degli Anni Folli. Uno spriz alle 17, al posto del tè, e mais croccante invece dei biscotti. E via, con i Pink Floyd a dettare il ritmo e un trentino addormentato sul sedile davanti, si parte con una mappa scritta a mano, che la stampante non andava. Si parte due ore e mezza prima: c'è gente che si perde con tre navigatori, meglio giocare d'anticipo! Per non parlare delle rotonde che ai miei tempi non c'erano, che spuntano come funghi. E si finisce nel posto giusto, ma non abbastanza da non chiedere informazioni. La strada per il Paradiso (con bagno e caffè) porta ad un circolo di pensionati ed il mondo alla loro misura, come se importassero ancora molto a qualcuno. E ci si accorge di quanto è bello trovare dei posti che stanno lì per prendersi cura di qualcuno. Ti salti la sfida a bocce solo per un soffio e due giovanotti del circolo ti terrorizzano affermando che sei del tutto fuori dal paese, col loro accento che sa di accoglienza. Poi aggiungono con voce grave che hai un chilometro e sei arrivato. E ti viene da ridere, che le distanze son proprio relative. E lo dico a me?
Si raggiunge un attore trafelato che intende fare la spola tra il trucco, le prove e gli amici che hanno sovrappopolato la cittadina. E con l'aggiunta di un'artista infagottata tra collo alto (altissimo!) e cappotto (leggero) si diventa quattro amici al bar, che chiacchierano del mondo.
Un nuovo attimo per recuperare altra ciurma, con un bel mezzogiorno di fuoco, fatto alle sette di sera. Saluti, abbracci, lacrime e sorrisi dopo aver giocato un po' ad "Indovina chi?", con la difficoltà di associare ad ogni personaggio due nomi e molti ricordi.

E poi un diluvio di parole e pensieri ascoltati in silenzio, tesi in avanti verso il palco. Una corsa dietro una pedana con un fiatone che poco ha a che fare con la finzione scenica. Acqua e desiderio di libertà e la magnifica notizia, in parallelo, che il buffone ha lasciato un palco che non gli è mai appartenuto:

proprio oggi Vittò!

Cena, chiacchiere e risate. Un catino di pesce. Una ciotolina di brodo. Pizze e racconti e lo sconto senza il conto. I primi saluti ed il freddo pungente che mi fa ridere tanto e non intacca il calore vero.


E meno di quattro ore di sonno son troppo poche, ma di nuovo in treno, un caffè, un cremino e ancora insieme in quel cimitero. A ridere. Sì, anche. Anche. Il fastidio per quel cancelletto chiuso non incrina la ricchezza dei ricordi, la voglia di ridere, di piangere, di stare in silenzio. Di ricordare insieme.
Ancora un bar, ancora scambi preziosi che pare davvero si possa cambiare tutto solo parlando, solo ascoltando e conoscendosi sempre più a fondo. Un giornale che profuma di vittoria e un po' di spriz rovesciato sulle patatine. Ed è già ora dei secondi saluti, che pare proprio strano non essere sempre insieme, così. Gli abbracci che sollevano da terra e quelli che non li lasceresti finire. E pare anche così naturale ritornare, un po' frastornati, un po' più carichi di leggerezza.
 Cappellacci di zucca e quelle chiacchiere su tutto, di gusto, che ti ci abitui e poi non riesci più ad ascoltare le parole vuote. E quattro passi tra le case abbandonate e la stazione. I binari da attraversare e la sciarpa recuperata al volo. Fiatone. Sguardi ed il terzo saluto.
Un ciao con la mano quasi a muovermi le tante emozioni davanti.
E arrivederci, amici.