lunedì 31 ottobre 2011

Educazione

Il bello di stare a tavola insieme è raccontarsi; col cibo che ti nutre, mentre lo scambio ti sazia.
Quando esce fuori lo spirito cantastorie di mio papà, poi, finisce sempre che c'è da ridere e riflettere, scoprire realtà che sembrano infinitamente lontane. È certo una lontananza mentale, visto come tutto sia cambiato in pochi anni, ma anche temporale. I miei nonni paterni avevano una generazione di differenza da quelli materni. Mia nonna era del 1902, mentre l'altra del '25. Una generazione di scarto, insomma. Tante storie di vita sentite raccontare sembrano appartenere a canovacci di teatro.

Così oggi mi è venuto in mente un quadretto che ogni tanto ritorna. Protagonista la sorella di mia nonna, che era del 1891. Fa proprio strano scrivere una data del genere che non sia per un compito di storia, eppure me zia Maria de me nono Antonio è presente più che mai nell'ironia che appartiene alla famiglia, ma soprattutto nella tenerezza dei ricordi. Affetto concreto verso una persona mai conosciuta. Forse a questo servivano i racconti di padre in figlio, seduti nella stalla a lavorare insieme, i canti delle donne, le filastrocche. Trasmettevano qualcosa di non conosciuto, tanto da fartelo entrare dentro, da renderlo tuo. Piano piano.
La zia Maria, figlia di un falegname vedovo e con sei fratelli; famiglia di persone che hanno conosciuto il lavoro, l'agiatezza che non ha nulla a che fare coi SUV, quella che ti fa vivere discretamente senza bisogno di chiedere aiuti. O di digiunare. Poi la guerra e la povertà più nera. Buona gente, si dice.
Mancavano di certo moltissime cose. Ce n'erano altre.
Essere educati, per esempio, era fondamentale. Non importava la fame, il desiderio, non importava il carattere. Di certo era ben chiaro che comportarsi bene venisse ben prima ed era così per la società, per tutti. La facciata spesso non era solo facciata, era proprio una dignità, un abito con cui presentarti e per cui ti si apprezzava. Pro e contro di questa cosa ce ne son stati, ma era così.

E mi immagino la zia bambina: sei sette anni, che si trova a cena, ospite, da amici di famiglia. Da sola. Sguardo basso rispettoso. Sorriso timido appena accennato. Il vestito buono per le feste. Composta sulla sedia, in silenzio. Mi immagino la fine della cena, gli scambi di parole gioviali, ma misurati e il padrone di casa che le si avvicina e le chiede:

   "Maria, la vuoi un po' di marmellata? Ce l'han portata proprio ieri."

Lei, ed è come se la vedessi arrossire di pudore, risponde:

  "No, grazie."

E sta in silenzio, ferma, da brava. Non moriva di fame, non ancora. Però di marmellate, seppure avesse la fortuna di conoscerne il gusto, non ne vedeva poi molte. Il suo no, deciso, non era che il rispetto dovuto a quella domanda, a quell'adulto gentile. E poi la vedo fremere, per sbloccare quel silenzio educato. Forse l'infantile desiderio che l'uomo insistesse fino a spezzare quel rito è più forte del rispetto. Forse il rispetto non si incrina affatto in questo modo. Dai miei occhi percepisco solo tenerezza. Mi sale una voglia di stringerla.

Ed è sempre bello riascoltare che non ha resistito, ha alzato la testa verso l'uomo per richiamarne l'attenzione e con voce sottile abbia chiesto:

  "Scusi, me la può domandare di nuovo, quella cosa lì?"

Yawp!

Sarà che son cresciuta col piccolo principe e la sua rosa arrogante e fragile, che lui ama alla follia nonostante sia così egoista ed insincera. Ma è facile che quando non penso, che quando la mia mente è sgombra, io finisca per pensare qualcosa di facilmente riconducibile a "L'essenziale è invisibile agli occhi".

Pensavo ai "gesti dell'amore". Quelli che, nei film e per l'educazione ricevuta, ti dovrebbero far capire dove c'è amore e dove no. Insomma dovrebbero facilitare la strada: notare la galanteria, sentirsi dire certe parole usate ad hoc, l'immagine dell'uomo/la donna ideali, i fiori, i regali, l'assecondamento delle aspettative.
In parte tutti sanno che sono clichés. Tutti. Eppure sembrano più rarità, quasi regali difficili da trovare, ma che se uno ha culo, SBAMMM, si becca il pacchetto completo ed è per sempre felice e contento. Come se i grandi non fossero che bambini cresciuti e sfortunati, perché la loro favola si è rotta e il loro cuore rimarrà sempre là, spezzato ed angustiato, mentre la testa si ripeterà che è colpa di qualche categoria, che il mondo va male e che la vita è difficile. Ma da qualche parte quel cinismo, quella rabbia avvilita, si riconduce a quelle favole che li hanno imbrogliati. Anzi, convinti. Convinti che in fondo potrebbe essere andata meglio, ma non l'ha fatto per sfortuna, per caso, perché niente è perfetto, ma... magari per qualcuno.. magari un giorno.

Più mi ostino ad ordinare la mia camera e più il mio intento non è finire di sistemarla, ma rendermi conto di quante cose, qui dentro, non dovrebbero esserci. Sono andate, non mi appartengono, non le ho volute o non le voglio più, sono appassite.
Ed è così. Ci si innamora tramite tante cose, che ognuno cataloga in gesti e segni che ci definiscono. Un libro è solo un libro. Ma poi lo tocco, lo sfoglio, l'annuso e magari lo consumo e lo divoro e mi piace o lo detesto, ma spesso continuo a credere che sia il libro il punto. Il libro è già passato, è dentro. Rileggerlo sarà ancora diverso. È quello che ogni volta passa o non passa, che stravolge le cose.

Mia nonna aveva un orto pieno di fiori, magnifici. Vederla curarli con l'affetto che si riserva ad un figlio era uno spettacolo commovente. I gesti sicuri, la pazienza, la curiosità, l'attesa. Tutto era un rito e fiorivano meravigliosi. Puntualmente coloravano i miei pomeriggi passati  tra il cortile e la casa e non mi rendevo nemmeno conto del ricambio. Sì, perché nonostante tutta la cura del mondo, in breve tempo sfiorivano. Ho ricevuto molti fiori e sono tutti sfioriti, appassiti. Hanno vissuto il loro tempo e probabilmente anche meno di quel che avrebbero potuto restando ancorati alla terra.

È così bello e necessario toccare le cose, giocarci, personalizzarle, apprezzarle. Però sempre si consumano, sempre. Forse crediamo che sia necessario tenerli con noi, fino a che non capiamo che non servono quegli oggetti. Serviamo noi, con loro. Serve che ci trasmettano qualcosa, che prima di appassire profumino, ci facciano capire quale parte di loro si insinuerà in noi per sempre. Come la favola. Ed è fondamentale capirlo.


Non per sempre servono i fiori. La bellezza sfuma e cambia, la guardi e già non c'è più. Ciò che resta è quello che è cresciuto dentro, in quello sguardo che ha colto l'attimo per amare quello che vedeva.

martedì 25 ottobre 2011

AccaDueO

Seduti sul fondo d'una massa d'acqua mi viene in mente che ci si debba annegare. Così la legge impalpabile del mondo suggerisce. Ordina. Ma credo che, prima, si possa rimaner vittime del terrore di arrivarci, laggiù. La paura fradicia che mi scorre sulla schiena e mi fa dire che conosco già il finale. E che conoscendolo, non vale la pena di appurare se sia vero o meno quello che credo di conoscere. E così un giorno scopro che oggi è l'aria che mi fa rimanere senza fiato e che l'acqua mi nutre, mi dà vita. E che respirerei lì giù, come d'ovunque, se solo riuscissi a credere veramente. Ed è incredibile come la materia, che mi è tanto essenziale e mi è cara come la vita stessa, finisca per spaventarmi e limitare sogni e realtà.
È che non si afferra. Non la posso sentire mia, se non lasciandomela scorrere addosso e dentro con una tale libertà che mi stordisce. Quella spontaneità di esserci o non esserci, propria di ciò che è puro. Di ciò che è talmente generoso da essere lì per te. Veramente. E lì per ognuno. Nessuno escluso. Veramente.
Resta sempre quella consapevolezza che c'è, ma scivola un passo più in là. Per dire qualcosa, forse. Per farsi seguire. La sensazione che l'unica cosa da cercare sia la strada per crederci di più. Che si può cambiare con pazienza e semplicità ogni cosa. Che c'è il tempo per tutto e per questo non c'è tempo da perdere. Che non ci si può perdere sempre in un bicchiere d'acqua. Che sott'acqua si può respirare. Dirò di più. Vivere.


lunedì 17 ottobre 2011

(E)virare

Pensavo a Roma, a come una manciata di buzzurri abbia vanificato il movimento di una massa enorme e pacifica. Che poi, vanificato. No, non l'ha vanificata. È che le telecamere son puntate male. Certo che per essere una che porta gli occhiali da quando aveva cinque anni accorgersi solo ora di quanto sia importante il punto di vista... fa ridere.

È che siamo troppo abituati a pensare che ciò che non vediamo è perduto.

Da piccola, piccola da non saper leggere, chiamavo come una forsennata perché, dopo la sigla del cartone, qualcuno venisse a leggermi il titolo della puntata. Il sapore del cartone cambiava molto da quel particolare. Non ci ho mai pensato ma è un po' come se fossi stata certa di non capirci nulla del cartone, senza leggere il titolo. A pensarci la metà dei cartoni che guardavo erano censurati, per cui era facile non capir niente tra una scena e l'altra: mancavano sempre scene di sesso, che davano senso alla reazione dei personaggi. Perché cavolo tutti ce l'avevano con Georgie l'ho capito in età avanzata.
E io che credevo fosse un problema di titolo. Di partenza.

Vedere Roma a ferro e fuoco mi ha messo rabbia, tristezza, molte cose. Ma soprattutto quella sensazione che si ha in classe quando il prof si incazza perché uno fa un disastro in aula e lui diventa il centro di tutto. E così si perdono lezioni a sentire il professore che si sfoga e dice che la classe non lo segue, che non c'è impegno, che non accetterà mai più volontari, che si stava meglio quando si stava peggio. Che è deluso.
Il bello è che gli studenti son già delusi, lo eravamo già, incazzati pure noi perché eravamo seduti sui banchi e lì, è vero che ascolti, aspetti e devi rispetto, ma è anche vero che sai di non aver il potere di dire del tutto la tua. Meglio: per la prima volta devi rivelare te stesso, trattenendoti in base a regole non da te decise, né sempre capite.
Quello che c'è di profondamente ingiusto è che farsi ascoltare pacificamente è molto più difficile che non prendendo ad accettate il banco. Questione di priorità. Questione che, chi sta zitto al primo banco, pare non abbia niente da sistemare dentro di sé.
Poi succede che sei adulto e vuoi dire la tua, sai che per la società conti un po' più di uno studente seduto in aula. Ma anche no. E così ti organizzi e vai a Roma e in tanti ci vanno. Tanti vuol dire un mare. E ancora una manciata di persone fa il cattivo tempo. E non è un gioco. È come un gioco, ma con armi vere, con fuoco vero e sangue. E tu ti aggrappi a quei cappucci che non ti appartengono, perché a te va proprio di mostrare la tua faccia, sei stanco di gente che tace perché in fondo tutti nascondono qualcosa.
Non è vero. Con tutto il mio pudore, non nascondo nulla.
La gente avrebbe bisogno di un sistema che la protegga, di prof che non si perdano una classe per elucubrazioni su una sola persona, di una nazione che apre gli occhi sulla massa, su quella che ha il coraggio di mostrarsi per quello che è, che ha difetti e oscurità che la rendono bella quanto i suoi pregi, che si schifa di chi si nasconde, di chi fa violenza, di chi approfitta del dolore. Di giornalisti che chiamano vigliacchi, i violenti, che hanno il coraggio di togliere la telecamera da una scena sanguinosa che può far audience, per raccontarla e basta, in modo distaccato ed avvicinarsi invece alle parole di chi ha il diritto di parlare, di chi è stanco per davvero, di chi è italiano ed è deluso perché in quest'Italia ci ha creduto tanto e ora, non solo non ha nulla: non sa più nemmeno se sperarci.
Il danno, la beffa. Ecco, gli ultimi vent'anni son stati una beffa, una beffa amara. Ma non mi interessa.

È davvero ora di virare.


venerdì 14 ottobre 2011

At par?

Se c'è una cosa che la vita insegna è che, per ogni istante di attenzione prestata a qualcosa, qualcos'altro perderà il tuo sguardo. Ci son quelle persone per cui ti pieghi in due, le cerchi, ti lasci spezzare perché sono loro e niente al mondo ti distoglierà da quella fatica di amare senza ritorno, né dallo sguardo che ti si fa dolce proprio in quella direzione e non in un'altra. Ci sono persone che ti cercano con l'amore tra le mani e ti investono di un'adorazione che, però, non basta a farti volgere lo sguardo.
Poi ci sono sguardi che si ricambiano. Gesti che ne chiamano altri in risposta, sentieri che vanno attraversati insieme e nessuno sbarramento merita la nostra paura. Come se ci fossero persone che alzano gli occhi quando lo facciamo noi e l'incontro è pulito, netto. Qualsiasi regola ti sia stata accollata addosso, perde il suo significato assoluto, fino a che quell'incontro non avviene. E deve avvenire. Più lo rifuggi e più ti insegue e ti si ripresenta sorridente alla porta.
E così vaghiamo senza saper per dove e quando è il momento e come fare e che senso abbia. Ed è tutto uno scoprire, imparare, cadere e arrivare, ripartire e credere e disilludersi e crederci di nuovo, con nuovi segni addosso. Che anche le cicatrici si trasformano in rughe.

Tutto questo si frantuma di fronte a quegli sguardi di prima. Alle parole e ai silenzi nati in quegli incontri a cui prestiamo attenzione. Quelli che, quando la prospettiva cambia, ti accorgi che ti mancano dentro come l'aria, come lo scorrere del sangue nelle vene e la pelle che ti si rigenera addosso. E ti mancano lì, proprio nell'istante in cui ti distrai un attimo e credi che riguardare basterà a riportarle lì. Come quando aspetti che il treno parta, per coglierne l'attimo e sempre, immancabilmente, ti rendi conto che si muove sempre un istante prima di quando ne hai coscienza.
L'attenzione ci viene meno in certi momenti, non possiamo evitarlo. Anche per le persone che resteremmo a fissare una notte intera e tutti i giorni a venire, solo per il piacere di guardarle. Ma alla fine le palpebre si chiudono, per potersi riaprire, e cedono. A volte ritrovano un paesaggio del tutto nuovo al loro risveglio. Ma quelle persone non le dimenticano. Gli occhi devono sapersi chiudere, ma non dimenticano ciò a cui hanno prestato attenzione.

venerdì 7 ottobre 2011

Something in the water

Si sta nudi, a volte. Dentro una vasca da bagno che ci contiene appena. Una vasca bianca, che non sa mai essere candida come la si dipinge. Bianca, ma non pura. E scende l'acqua da un rubinetto argentato, familiare di graffi ed impronte. Scende tiepida dal telefono storto, con un serpente di filo ad avviluppare il rubinetto, quasi a sostenersi, quasi a soffocarlo.
Gambe incrociate e il corpo mi si proietta in avanti, senza forze. Vedo i piedi rilassarsi e muoversi appena sotto l'acqua che sale lenta e inesorabile, senza chiedere permesso. Si muove, scossa da altra acqua, ribolle e si calma e ingrigisce sulla fatica di un corpo stanco e avvilito che si guarda affondare dove prima sedeva.
Alzo gli occhi sul bordo. È bianco, sul serio lo è. Riflette l'eco delle pareti e il silenzio sporcato dallo scroscio silenzioso e continuo, che abitua le orecchie e le disturba senza farsi notare.
Non è così bianco, quel bordo. La polvere, un capello, gli schizzi. Non è così bianco, come potrebbe essere.
Ma potrebbe?
Afferro una spugna ormai secca. La lascio cadere e osservo come l'acqua sia lenta ad insinuarsi, ma non si fermi fino ad averla ritornata morbida. La sfrego su quel bordo, fino all'angolo. Striscio, forte che vedo le dita impallidire, decise e corrugate per quel tempo passato ad arrendersi all'acqua.
E mentre il mio gesto diventa meccanico, la mia mente si distacca e graffia la superficie, gratta lo smalto, lo fa sparire e piano piano consuma il bordo e la vasca e la parete e l'acqua è libera di occupare il suo spazio. Lo ruba presto all'aria e si scontrano, si abbracciano e scambiano particelle e chissà quali vibrazioni, quali equilibri. E il corpo resta nudo, lì. Squassato da qualche sighiozzo che ormai si calma e lo lascia spossato a terra. Bagnato di vita. Spossato.
In mezzo ad un nulla che lo protegge da tutto.

sabato 1 ottobre 2011

La Teoria della zanzara

Saranno state le tre, stanotte. Mi sveglio con due punture allucinanti di zanzara sul braccio. Va beh. Mi rilasso, sto ferma, cercando di non pensare al prurito, come dice mio papà.
Ma come cazzo si fa??   Ehi! Ci sto riuscendo.. magnifico!
Ma immancabilmente arriva. La zanzara, dico. Arriva con quello strafottente ronzio. Reazione immediata: mi giro di colpo prendendo a sberle il cuscino vicino all'orecchio che provo a schiacciarla nel buio, tecnica che raramente mi riesce, ma è successo. Saranno gli anni di karate. Ovviamente questa volta no.
Mi siedo a gambe incrociate, accendo la luce e guardo in giro. Gli occhi a fessura non c'entrano nulla col sonno, è proprio un tentativo di fulminarla a distanza. Mi occupo degli angolini strategici vicino al letto. Poi la vedo. Mannaggia è di quelle furbe semi trasparenti che vanno veloci e non sono appesantite dall'abbuffata. Non c'è partita, la manco e sparisce.
Spengo la luce e parto col piano B: mi copro. Fortuna che non è estate, è finito anche settembre (a proposito: avete svegliato i Greenday?). La copertura è strategica, lascio fuori solo il viso per sentire se passa ancora.
 La cosa si ripete altre tre volte: la sento, picchio il cuscino, luce fu, la vedo, la manco, inveisco, click, di nuovo buio. E in quello stato mummiesco con scatti improvvisi e momenti rabbiosi, finisco per dire: chissenefrega, che mi punga. Non ne posso più.

Ecco. È nata così, nell'attesa e nella lotta, la Teoria della zanzara.
C'è un momento in cui sopporti per quieto vivere, ma poi per esasperazione inizi a credere che dopo tutto un po' di sangue può proprio succhiartelo via, che mica sei possessivo e che poi, in fondo, va bene così.. ecco. Mi son vista Silvio, sì, Berlusconi e Brunetta e la Gelmini e la Lega tutta e la massa di idioti che si permette di ronzare per il Parlamento comportandosi allo stesso modo. Zanzare tronfie di potere e denaro. Così fan tutti? Sempre state? Sì, può darsi. Eccolo qui il punto. Una la scacci con la mano e poi ritorna e poi non sei mica capace di ucciderne la voglia di prendersi a poco a poco un po' di più.
Con la storia che i ladri ci son da sempre si accettavano svolazzanti anche in buona vista, solo l'evidenza del loro essere vampiri finiva per farli dimettere. Un tempo.
Poi basta. Un passo alla volta, l'abitudine, la rassegnazione stanca. Ed ecco che va tutto di nuovo bene così. Va bene il puttaniere perché non siamo più puritani (solo con lui, pare), va bene la mancanza di stile, il grezzume, la presa in giro, dire una cosa e negarla subito dopo, il fatto che il Parlamento sembri più l'Anticamera del carcere che permette di non raggiungerlo. E poi il fatto che i leccaculo siano prolificati, che l'ignoranza si crogioli nei suoi tunnel immaginari, che il razzismo sia una cosa così da ridere, che i soldi comprino tutto, che dopotutto ognuno ha il suo sporco da nascondere.

Ma chi? Ma dove? Ma quando? Ma perché?

Ma quanta pigrizia ci fa star qui, a rigirarci nel letto e sperare di riaddormentarci prima di accorgerci del sangue rubato? Ma quanta paura di dire, di fare, di esserci? Quanti silenzi, quanta rabbia formale? Quanta Italia dobbiamo veder marcire ancora prima di rivoluzionare il nostro spazio nella società, per liberarci dei ronzii che copriamo con tante giustificazioni?

Anche i dinosauri c'erano e non ci sono più.
Magari con loro siamo stati più convincenti.