sabato 16 aprile 2011

Ticking away

Forse a volte non si parla, solo perché si sa bene che scatena delle reazioni a catena, su cui non si ha il completo controllo. Non lo si ha mai, che ci si illuda o meno di averlo.
Forse a volte non parlo per non ascoltarmi cadere di botto, ancora una volta, per non sentirmi senza forze, sconfitta e ancora sulla linea di partenza. Anzi più indietro, ancora al cancello di ingresso, con la borsa pesante addosso e i pantaloncini corti, che mi fanno sentire così pronta alla corsa perché lasciano le gambe libere di rabbrividire.
Non lo so perché reagisco al contrario, perché la fretta e la voglia di terminare qualcosa diventa in me un masso enorme che continuo ad abbracciare, non lo so perché più rallento e più rallenterei.
So che ho fatto le mie gare, piccole, niente di eccezionale. Senza pubblico, molto spesso. Spesso correvo contromano e non per fare la ribelle, ma perché mi veniva così, sbagliavo strada e la curiosità di altre direzioni mi ha sempre affascinato.
Eppure formalmente mi sono sempre iscritta alla gara ufficiale. Quella seria, quella migliore, quella in cui la posta in gioco era maggiore. Quante volte ho mancato lo sparo della partenza. E correvo lo stesso, con un sorriso in pugno ed entusiasmo. A tradire a volte è stato un crampo, altre volte il cuore pesante, ma in genere era la testa distratta da qualcosa. Qualsiasi cosa. Una musica, uno sguardo. La vita degli altri. Spesso correre diventava il pretesto per rincorrere persone che incrociavo per caso e diventavano compagni di viaggio.
           "Non ti far manipolare dagli altri".
Quante volte me l'ha detto, quante volte lo penserà ancora. Eppure non potevo impedirmi di correre al fianco di qualcuno per un po', con decisione, con volontà affettuosa, incidendo la materia grezza di cui sono fatta, scalfendo gli spigoli, rallentando, modificando la strada, inciampando e ritrovandomi ancora sola. Non era che il mio modo di guardarmi allo specchio. E lo è anche adesso.
Che sia un fuggire astuto e subdolo, l'ho pensato molte volte. Alla fine quante persone ho accompagnato al loro traguardo senza che fosse il mio.
Non so dire, non ho più risposte da inventarmi, né belle parole da voler ascoltare. Avrei pagato oro per una soluzione, per un segnale ben piazzato, ma soprattutto sicuro, per leggere da qualche parte:
"Evvai, di qui non puoi che arrivare in cima e ne sarà valsa la pena".
Più cercavo cartelli e più finivo per scriverli da sola, per sognarmeli, per inoltrarmi in una giungla senza strada battuta.
Se di segnali da sempre ho bisogno, da sempre non li accetto. Non ci avrei creduto ad un cartello che mi dice che va tutto bene, non ho mai creduto a nulla che non fosse la mia fatica, il mio sudore, il mio piacere.

E' tutto qui, segue una strada non prevista, né prevedibile e probabilmente poco lineare, ma è unica, chiara e profonda. Non so nemmeno se sia il sentiero stesso la risposta o se lo siano le mie ferite, la mia rabbia, la mia pace di alcuni momenti in cui non desidero altro che ciò che sono e quello che gli altri sono, accanto a me.
Continuo a credere troppo poco nelle mie gambe finché so correre, nei miei occhi finché sanno guardare, nelle mie orecchie finché ascoltano senza fatica. E a pensare troppo di dover per forza vincere quella gara nel modo in cui credevo di doverlo fare, tagliando il traguardo all'ora giusta, nel posto giusto.
Invece, guarda caso, quel tempo e quel luogo sono passati, eppure correre, camminare, zigzagare nella vita, continua a dirmi (senza però farmelo sapere), che tutto va bene proprio così com'è e che il tempo per ogni cosa c'è e ci sarà, senza che alcun orologio lo sappia contenere.

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