sabato 24 dicembre 2011

Risvegli

Centro Commerciale brulicante di zombie. Piccoli zombi adibiti ai colori e ai giocattoli, zombi urlanti che li inseguono, zombi al lavoro per altri zombie, zombie che fingono che nulla esista, ma solo loro e la loro vittima da afferrare tra le mani stanche, ma decise. Zombie che tirano un carrello di scatoloni. Zombie che si scontrano come birilli. Zombie che mugugnano segnali di rito. File di zombie che non si uccidono a vicenda solo perché non sta bene e stanno ordinati e in silenzio, ma pronti a ribollire come una pentola di fagioli non appena ce n'è l'occasione.
Zombie che ignorano i tentativi di comunicazione degli esemplari più svegli che stanno tramando una ribellione. Esemplari rari e di vita breve, che finiscono per ritirarsi nel loro cantuccio, ritenendosi sbagliati. Errori del sistema. Sistema zombie, perfetto. Inattaccabile.
Ci sono dentro e sonnecchio camminando tra gli scaffali, come gli altri. Solo che son lì per guardarli, mi piace osservarli, vederli sotto quel torpore che puzza di soldi e di dare per avere. Ancheggio come loro. Sonnecchio ad occhi aperti e cerco disperatamente un barlume di risveglio che non sia solo mio. Che sia condiviso. Che occhieggi al mio cuore. Un cuore in uno zombie, come passerà il suo tempo in attesa che gli venga richiesto di battere ancora?
Alzo gli occhi:

CHI SI APPROPRIA INDEBITAMENTE DELLE MERCI,
VERRA' DENUNCIATO.

Un cartello sovrasta le casse e le teste di noi, esseri vaganti. Sovrasta le luci e le merci e il pensiero compresso, il desiderio destato e quello assopito. Leggo una volta. Mi si accende una domanda:  
che succede a chi si appropria indebitamente della coscienza di una persona? 
Abbasso gli occhi. Resto immobile in mezzo alla corsia. Incredibilmente mi scansano senza calpestarmi. La lotta diretta sembra non esistere più. Si fa prima ad ignorare chi ignora il sistema. Chi si accorge che può farlo. Rileggo, due, tre, quattro volte. Sorrido.
Vorrei prendere una scatola di pasta e correre fuori, un cioccolatino, un'illusione qualsiasi di quelle esposte. Mi vien la voglia di rompere il gioco, di cambiare le regole e restare a guardare la denuncia che nasce, le ragioni a sostenerla, gli zombie che la giustificano. Vorrei guardarli negli occhi vuoti, prender loro le mani fredde, portarle al mio petto, far sentire che il cuore batte. Il mio cuore batte. E il loro?


La Vigilia di un altro Natale. Che sento tra le viscere in un modo particolare, unico, come un risveglio vero dopo molti anni. Di discorsi che lasciano il tempo che trovano ne ho sempre fatti. Però questa volta è diverso. Niente malinconia, niente incontenibile scemenza dettata dall'atmosfera fittizia che ci vuole diversi e rassegnati, fintamente sorridenti. Son realmente serena. Per quel che vale, per quel che vuol dire. Niente. Non vuol dir nulla. Vuol dire che potrei essere laureata e ancora non lo sono, sistemata - se questa parola ha un significato concreto e non menzognero come credo - potrei essere lontana, altrove. Potrei fare altre cose, sottostare ad altre leggi, piangere e ridere per altre persone, affezionarmi a qualcuno in modo diverso, più accettabile e meno onesto, meno cristallino.
E invece non mi sento in trappola, non mi sento perduta e non mi sento che in cammino. E guardarmi camminare come uno zombie non mi porta più rabbia, ma stupore. Perché? Perché camminavo senza ascoltarmi i passi, senza sentire i vestiti scaldare la pelle, il sole allungare le ombre, trasformandole, occupandole? Perché mi preoccupavo tanto di non fare la scema fuori dal mio recinto sicuro? Perché preoccuparmi di rimanere sola?

Ho alzato lo sguardo oggi e mi son sentita libera di farlo. E lo ero anche prima. E lo siamo tutti. Chi con più fatica, chi non merita altro peso sulle spalle, certo, altri soldi da tirare fuori. Ma siamo liberi di non discutere più con noi stessi. Più. Ho scelto l'altra via. E così accorgermi di fare lo zombie tra gli zombie, in questi giorni freddi, intirizziti, mi fa dire che ci dobbiamo riposare, dobbiamo chiudere gli occhi per riaprirli. Non possiamo pretendere di tenerci sempre pronti, sempre all'erta, sempre timorosi che qualcosa arrivi e ci spezzi. Ciò che arriva non ci spezza, è la nostra resistenza a farlo, la nostra paura, le nostre aspettative di bimbi che non trovano sotto l'albero ciò che hanno chiesto e non si accorgono di quanto è magnifico l'albero che hanno costruito con le loro mani. Sembra così poco, così banale. E non lo è, non lo è nessuno. Siamo così belli quando ci prendiamo per quel che siamo. Anche con le occhiaie e le rughe e i segni del pianto, le cicatrici. Una risata buffa. Quanto siamo più belli quando siamo e basta. Senza maschere. Ci si fa anche male, certo. Si perde qualcos'altro, indubbiamente.
Ma guardavo e continuo a guardare. Quanto più belli siamo.

Buon Natale! Auguri di cuore a tutti voi.

mercoledì 14 dicembre 2011

Indipendence Day

Dopo pranzo c'è il rito di Rai3. Prima il TGR che bisogna capire che succede nella regione, poi il meteo per cui va rispettato con devozione il silenzio - sempre che io non abbia voglia di mettere a rischio la mia vita sparando qualche cazzata ben misurata - e, infine, il TG3 (normale) che va confrontato col TG1, visto durante il pranzo per autolesionismo e col TGLa7 che si vedrà alla sera. Riti delle Reti.
Stranamente mia mamma si prepara per uscire tra Meteo e TG3. Scompare nel bagno. Io asciugo i piatti con l'animo gaio di chi si è accorto che il sole illumina ancora il mondo e pure la Pianura Padana. Mi siedo un secondo, schiaccio il 6 approfittando della ghiotta occasione: una volta tanto posso vedermi i Simpson senza importunare internet!

Clic.

Pubblicità. E ti pareva. Va beh, che pretendi? Italia1 hai pigiato.. ora iniziano. Passano venti secondi. Una voce ben nota si confonde col delirio di qualche canzone di Natale che invita a mordere panettoni telefonando chicchessia. Ignorando gli astanti, come la modernità insegna. E la voce dice: "Ehi! Hai girato..!"
Mi giro, sollevo le sopracciglia, anzi solo il sinistro che rende di più:
"Sì, ho girato. Non c'eri!"
"Ma ero di là, qui vicino!"
Sorrisino.
"Ah. Quindi devo guardare quello che va a te anche quando non ci sei, se sei abbastanza vicina?!"
Sguardo sbieco: "Certo! Infatti eccomi qui!" Ride.

La guardo. Mi guarda. Le vengono gli occhi sempre più verdi quando c'è il sole, ma non glielo dico, che poi s'offende. Chissà perché. La guardo. Mi guarda colpevole, sa benissimo che la sua richiesta è insensata: sta per uscire. La guardo.
Imbarazzata passa all'attacco, che è la miglior difesa. Dicono. Per me è un attacco e basta, ma mi vien da ridere lo stesso.
"Ti strozzerei quando fai così!!" E ride ancora, ma lancia un'occhiata alla tv.

"Ah. Mi strozzeresti pure? Solo perché dico la verità??" Scoppio a ridere. Cambio canale.

Mi alzo e torno al pc. Ma chissenefrega dei Simpson. La mia famiglia non sarà gialla, ma pazza lo è di certo.. e poi come altro potrei agognare tanto l'indipendenza, se non avessi tale motivatrice in casa?


lunedì 28 novembre 2011

Mayday

Ci sono istanti in cui sono un'indistruttibile scatola nera, molto più propensa ad afferrare i pensieri degli altri custodendoli al sicuro, che non a comprendere il senso della mia esistenza oscura. Per cui passo quel tempo nel buio dei miei occhi strizzati, le unghie piantate sul palmo, a pregare che l'aereo non precipiti. Consapevole che se cadrà sfumeranno sulla sua scia dei sogni che amo e che mi riempiono senza che li abbia ancora sognati o raccontati. Consapevole che se quell'aereo non cadrà nessuno squarcerà mai le mie pareti e resterò intonsa e sconosciuta, pronta per un altro viaggio.

Poi un dito si lascia sorprendere dal morso del mio bestio, annuso il profumo del ragù dalla cucina ed il vociare indistinto dei miei. Un'amica mi telefona, uno mi sorride da distante ed altri stanno in silenzio. E li penso e mi pensano. La nebbia, per questa volta vinta dal sole, si fa dimenticare e strimpello una vecchia canzone, con le dita che reclamano i calli che hanno perduto. E non mi sento così indistruttibile o confinata, né così sola. Ma in viaggio, questo sì. Ed è un bel viaggio.

venerdì 25 novembre 2011

Revolución

Qualche giorno fa, ascoltando il sociologo Giuseppe De Rita ad Otto e mezzo, mi si son chiarite dentro delle riflessioni, che avevo in testa da un po' di tempo, sul perché la popolazione italiana continua a non reagire, a non fare la sua rivoluzione, a non lottare per la propria dignità.
De Rita parla di imborghesimento senza borghesia. Come dire: siamo poveracci trasformati in borghesi solo grazie a cellulari, schermi al plasma e ad un'auto di proprietà. Poveracci impastati di status symbol più o meno costosi ma diventati, fino a qualche anno fa, alla portata di molti. Ora il risveglio tragico dal sogno.

L'impressione che ho è che questa rivoluzione non s'ha da fare, perché nessuno ha voglia di farla, di spezzarsi un'unghia, di alzarsi dal divano, rompere la routine, di restare senza pc e magari senza cellulare, pur di innescare il cambiamento. Mi sembra di sentire l'eco della generazione dei miei genitori, che ha fatto conquiste per se stessa. Una rivoluzione, ora, sembra ammettere che i passi in avanti non sono stati decisivi, né così incisivi. E poi la rivoluzione è roba da morti di fame, è un affare che smuove dei muscoli che si stanno rattrappendo e appiccica fastidiosamente i vestiti alla schiena. Un brutto affare che scuote dalle viscere e toglie il sonno in nome di un sogno. Chi ci crede più? Non abbiamo più il fisico per un altro '68. Abbiamo già dato. E toccherebbe a noi, alla mia generazione, cresciuta ascoltando i consigli - a volte confusi - di chi ha conosciuto la povertà e di colpo si è ritrovato nel boom economico. Noi, che dovremmo lanciarci con le consueta avventatezza dei giovani, cresciuti in un limbo tra prudenza verso pericoli ormai obsoleti e la furbetteria incalzante negli anni dell'economia del consumo. Paure un po' inculcate e un po' naturali, certezze mal riposte. Generazione, la mia, tenera, inconsapevolmente ingrata, sballottata tra ciò che si può e quel che si deve, ma soprattutto quel che piace - che bisogna far solo quello che ci piace - ma non troppo che poi si diventa egoisti, ma non troppo poco che poi pare di tornare ai sacrifici di stampo cristiano, che proprio non si possono vedere. E via discorrendo. Noi splendido risultato di una schizofrenia splendida, in parte causata dall'inesorabile velocità di un progresso che ci ha travolti ben prima di conquistarci. 
Vince chi corre, non chi si domanda perché lo stiamo facendo e si ferma a pensare. E a correre ci si accorge solo di non poter arrivare sempre primi, a meno che non si inizi a spingere o fingere o accontentarci di non arrivare mai alle mete, spesso proposte da qualcun'altro. La rivoluzione non nasce spontanea in una generazione con un peccato originale sulle spalle: la fortuna di avere tutto e non sapersene che fare, una generazione che spesso tutto non lo ha voluto, ma che se l'è trovato tra le mani lo stesso.

Qui, proprio qui, nell'infanzia della mia generazione, piazzateci poi un tizio con grossi complessi sul suo aspetto fisico, che sfoga la frustrazione rubacchiando da imprenditore e infogna con anni e anni di idiozie il Paese. Convincendo una massa enorme di persone che va tutto bene, finché va bene a te. Che rubare è legittimo finché non ti beccano. Che, se ti beccano, basta negare fino alla morte e tutto s'aggiusta. Il genere di panzane a cui crede uno struzzo che infila la testa nella sabbia e crede di non essere visto. Ma c'è sempre un risveglio. Se poi da dietro arriva un gorilla ingrifato, il risveglio diventa amaro e molto doloroso.

E poi ci sono i piccoletti. La nuova generazione che mi si è aggrappata a gambe, braccia e cuore, quando sono andata a trovarla, la generazione che mi insegue con un origami in mano e lascia biglietti giganti con cuori e stelline, pregandomi di tornare. Faccine serie e concentrate che vogliono solo che tu stia lì. Puoi essere chiunque, ma devi dimostrarglielo che sai voler bene, se no sei solo un altro adulto confuso da accettare con rassegnazione, ché dagli esseri umani tutto può essere accettato e assorbito, ma ha i suoi effetti. Quella stessa faccia che ogni bimbo fa, quando si accorge che l'essere umano non è affatto al centro come si dice. Ma lo si dice ancora? Una generazione razionale, con spolverate di cinismo spicciolo e disillusione che sa di delusione, specchio di adulti che sorridono a comando e spengono la speranza prima che arrivi agli occhi, prima di lasciarcisi toccare il cuore. Anche questa una generazione che ha avuto tutto e, come la mia, non avrà una pensione, né certezze. Né interiori né esteriori.
Anche da questa generazione ci si aspetta la rivoluzione un giorno. Ma come? Perché? 

Ogni generazione sente, in fondo, di essere un po' in trappola, colpevole senza ragione e lotta per le proprie libertà. Chi un tempo aveva sul tavolo ideali e sogni e un futuro, però far l'amore era roba da agenti segreti. Una caviglia scoperta e girava la testa e il peccato e la passione e la mini e i reggiseni lanciati. Ma poi, ma poi c'è chi c'è nato senza quei freni e gli sfugge il senso di quel cambiamento e sta scavando oltre. Chi, giovane oggi, si ritrova così abituato al nudo imposto da chi lo bramava, da non rabbrividire nemmeno più al pensiero dell'intimità. Che se ne fa di un nudo chi ha perso i cinque sensi? Il sesso, che si fa merce anche nel quotidiano, non accarezza le cosce, non sfiora la fantasia.
La rivoluzione, oggi, dovrebbe toccare le emozioni, la voglia di aver sogni impossibili, di incantarsi e rallentare. Ascoltarsi respirare col proprio ritmo e ingoiare i fallimenti, abbracciare il piacere subitaneo e sincero, quello che ti sale dalle dita dei piedi, lungo i polpacci tesi e l'inguine pulsante, circonda l'ombelico, facendo battere il cuore e gonfiare i polmoni, allarga le spalle e muove le braccia e rilassa il collo, su, lungo tutta la spina dorsale e arriva alla testa, brulicante di desiderio e ragione e si specchia nello sguardo che impara a guardare il mondo per la prima volta.
La vera rivoluzione sta nel sorridere prima ancora di capire il perché. Sta nel volersi cambiati. Così tanto da cambiarci sul serio.


mercoledì 23 novembre 2011

Underneath

Uno ascolta/legge questa notizia e che pensa? Punto di vista mio, ma faceva più o meno così:

Tre ventenni o poco più, accusati dello stupro di una minorenne, vengono condannati ad otto anni. Siamo a Velletri, vicino a Roma. La marmaglia di parenti e amici che si portano appresso in tribunale devastano l'aula, aggrediscono agenti e giudici, spaccano vetrate, fanno volare i cestini della spazzatura. Parenti dei tre ragazzi, sì, non quelli della ragazza. Arrestate venti persone, perché non c'è modo di placare la rabbia inconsulta in altro modo.

Allora, io che dovrei dire? Che va così, che c'è gente maleducata e irosa che non sa stare al suo posto?
O che la violenza, l'idiozia, la delinquenza perbene, quella del "figlio di buona famiglia" come viene detto, non è che il risultato di una rivoltante e abissale ignoranza?

Cronaca, semplice cronaca di un'idiozia.
Quello dei tre ragazzi è reato. Punito con otto anni. Tre ragazzi che non hanno capito un cazzo del rispetto della vita altrui, della distanza, della socialità, dell'amore e della dignità propria e altrui. Della donna. Nella società che fa cappottini per cani e bada alla cecità dei panda non c'è spazio per la spiegazione agli esseri umani del valore degli esseri umani. Accanto ai tre ragazzi l'idiozia, il delirio brutale di questo brulichio di "adulti" che spaccano tutto per difenderli. Difenderli? Li rovinano ancora di più. Spaccano tutto, rendono assurda la sentenza, rovesciano il senso della giustizia, negano la verità ai propri figli, li abbandonano in una galera senza la minima possibilità di capire l'enorme abominio che c'è nello stupro, nel violare una persona, una vita. La ragazza non è morta, certo. Dovrà convivere con un macigno che in un modo o nell'altro affronterà. O no. Non lo sappiamo, né a nessuno importerà saperlo, se non chi la ama, quella ragazza. Ed è pure rumena.
E l'Italia accogliente, solare, aperta e senza pregiudizi, è tornata indietro anche su questo fronte. Mi domando come, una società che intende liberarsi dell'altro, del diverso, allontanarsi dal suo sud, arricchirsi in modo ingiusto e poco equo, possa difendere dalla violenza una donna che ogni giorno viene discriminata dalla società stessa. Denigrata. Su cui si fa dell'ironia prudereccia per nascondere reali cinismo, ignoranza e maschilismo sempre più accettati in modo arrendevole.

Dalle basi bisogna ricominciare. Dalle basi.
La rivoluzione vera non partirà mai se non ci sono delle persone che sentono di aver perso qualcosa. Il rischio della nuova generazione è che non ricerchi più il rispetto e la dignità. Non per superficialità o maleducazione, ma perché nessuno glieli ha mai fatti conoscere davvero. Mi sa che di strade non ce ne sono molte, siamo talmente alle strette.. per cui l'unica cosa è ritornare agli ingredienti base: a prenderci cura dei valori, prima che ci si dimentichi cosa vuol dire sentirsi persone dignitose in una società civile.

Tutto il resto verrà dopo.


lunedì 21 novembre 2011

Meteo senziente

Uno dovrebbe domandarsi la ragione del proprio stato d'animo. Non analizzarlo e scompigliarsi di ispide domande scomode e senza risposta, ma domandarselo spesso e volentieri sì, che spesso c'è una risposta.

"Come mai così seria, oggi?"
"Seria? Io? Ma hai visto che faccia avevi tu quando hai guardato la mia? No, non l'hai vista, ma l'ho vista io. Marò, mi son sentita deportabile a Lourdes."

"Com'è quel cipiglio grigiumoso?"
"Hai guardato dalla finestra? No, perché qui guardi fuori e, se vedi qualcosa, è grigio. Se no non vedi proprio nulla, baratro plumbeo sospeso e umidiccio tra le ossa e l'umore. E la nebbia ti si trasla nel cervello. Che non sarebbe poi una novità. Ma ti rendi conto che altrove c'è il sole anche in autunno e inverno, ogni tanto? Rendiamoci conto!"

"Che cera. Ti sei svegliata col piede sbagliato?"
"Capisco che non puoi notare: fa freddo ed ho le braghe lunghe. Ma se vedessi l'ematoma violaceo che ho sulla coscia, capiresti che non è il piede sbagliato il problema, ma che sbaglio le misure, cazzo. Sbaglio le misure e sbatto come una pallina impazzita su tutto ciò che è spigoloso. I bordi arrotondati chi credi che li abbia smussati? Chissà perché imparo ad evitarli appena perdono d'efficacia.

"Ma stai piangendo o ridendo? Non si capisce."
"Ma non lo so, non lo so! La sacker mette sempre di ottimo umore [rido di gusto]. La laurea bussa alla mia porta sprangata e, la solita distratta, mi son chiusa dentro perdendo le chiavi [piango tentando di uscire dalla finestra]. Il mio bestio mi fa le fusa quando gli porgo del cibo, invece di strapparmelo semplicemente dalle mani: impara a fingere affetto, che tenerezza! [rido al 'piutost che gnent l'è mei piutost'].
Berlusconi non è più presidente [rido sguaiatamente]. L'Italia è allo scatafascio che fra un po' se ne accorgono anche i leccaculo [mi dispero]. Guardo Crozza che imita Brunetta e Bossi [rido divertita]. Ascolto Brunetta e Bossi originali [lacrime rabbiose: son molto peggio dell'imitazione].

Farsi troppe domande è deleterio, quanto darsi troppe risposte idiote.
Giuro. Non lo guardo più il Meteo del Tg1.


martedì 15 novembre 2011

Affinità elettive

Ci vuole sempre tempo per tutto, attesa e pazienza. Impegno e fatica. Poi bastano due giorni e ne sembrano passati mille. Quando la vita ti stravolge è sempre in un attimo, in un incontro atteso da tempo, ma che ti sorprende come una risata.
Un istante te ne stai in auto, con un passapatate in una mano e del pampepato nell'altra e poi sei una dei tre folli alla mostra degli Anni Folli. Uno spriz alle 17, al posto del tè, e mais croccante invece dei biscotti. E via, con i Pink Floyd a dettare il ritmo e un trentino addormentato sul sedile davanti, si parte con una mappa scritta a mano, che la stampante non andava. Si parte due ore e mezza prima: c'è gente che si perde con tre navigatori, meglio giocare d'anticipo! Per non parlare delle rotonde che ai miei tempi non c'erano, che spuntano come funghi. E si finisce nel posto giusto, ma non abbastanza da non chiedere informazioni. La strada per il Paradiso (con bagno e caffè) porta ad un circolo di pensionati ed il mondo alla loro misura, come se importassero ancora molto a qualcuno. E ci si accorge di quanto è bello trovare dei posti che stanno lì per prendersi cura di qualcuno. Ti salti la sfida a bocce solo per un soffio e due giovanotti del circolo ti terrorizzano affermando che sei del tutto fuori dal paese, col loro accento che sa di accoglienza. Poi aggiungono con voce grave che hai un chilometro e sei arrivato. E ti viene da ridere, che le distanze son proprio relative. E lo dico a me?
Si raggiunge un attore trafelato che intende fare la spola tra il trucco, le prove e gli amici che hanno sovrappopolato la cittadina. E con l'aggiunta di un'artista infagottata tra collo alto (altissimo!) e cappotto (leggero) si diventa quattro amici al bar, che chiacchierano del mondo.
Un nuovo attimo per recuperare altra ciurma, con un bel mezzogiorno di fuoco, fatto alle sette di sera. Saluti, abbracci, lacrime e sorrisi dopo aver giocato un po' ad "Indovina chi?", con la difficoltà di associare ad ogni personaggio due nomi e molti ricordi.

E poi un diluvio di parole e pensieri ascoltati in silenzio, tesi in avanti verso il palco. Una corsa dietro una pedana con un fiatone che poco ha a che fare con la finzione scenica. Acqua e desiderio di libertà e la magnifica notizia, in parallelo, che il buffone ha lasciato un palco che non gli è mai appartenuto:

proprio oggi Vittò!

Cena, chiacchiere e risate. Un catino di pesce. Una ciotolina di brodo. Pizze e racconti e lo sconto senza il conto. I primi saluti ed il freddo pungente che mi fa ridere tanto e non intacca il calore vero.


E meno di quattro ore di sonno son troppo poche, ma di nuovo in treno, un caffè, un cremino e ancora insieme in quel cimitero. A ridere. Sì, anche. Anche. Il fastidio per quel cancelletto chiuso non incrina la ricchezza dei ricordi, la voglia di ridere, di piangere, di stare in silenzio. Di ricordare insieme.
Ancora un bar, ancora scambi preziosi che pare davvero si possa cambiare tutto solo parlando, solo ascoltando e conoscendosi sempre più a fondo. Un giornale che profuma di vittoria e un po' di spriz rovesciato sulle patatine. Ed è già ora dei secondi saluti, che pare proprio strano non essere sempre insieme, così. Gli abbracci che sollevano da terra e quelli che non li lasceresti finire. E pare anche così naturale ritornare, un po' frastornati, un po' più carichi di leggerezza.
 Cappellacci di zucca e quelle chiacchiere su tutto, di gusto, che ti ci abitui e poi non riesci più ad ascoltare le parole vuote. E quattro passi tra le case abbandonate e la stazione. I binari da attraversare e la sciarpa recuperata al volo. Fiatone. Sguardi ed il terzo saluto.
Un ciao con la mano quasi a muovermi le tante emozioni davanti.
E arrivederci, amici.


lunedì 31 ottobre 2011

Educazione

Il bello di stare a tavola insieme è raccontarsi; col cibo che ti nutre, mentre lo scambio ti sazia.
Quando esce fuori lo spirito cantastorie di mio papà, poi, finisce sempre che c'è da ridere e riflettere, scoprire realtà che sembrano infinitamente lontane. È certo una lontananza mentale, visto come tutto sia cambiato in pochi anni, ma anche temporale. I miei nonni paterni avevano una generazione di differenza da quelli materni. Mia nonna era del 1902, mentre l'altra del '25. Una generazione di scarto, insomma. Tante storie di vita sentite raccontare sembrano appartenere a canovacci di teatro.

Così oggi mi è venuto in mente un quadretto che ogni tanto ritorna. Protagonista la sorella di mia nonna, che era del 1891. Fa proprio strano scrivere una data del genere che non sia per un compito di storia, eppure me zia Maria de me nono Antonio è presente più che mai nell'ironia che appartiene alla famiglia, ma soprattutto nella tenerezza dei ricordi. Affetto concreto verso una persona mai conosciuta. Forse a questo servivano i racconti di padre in figlio, seduti nella stalla a lavorare insieme, i canti delle donne, le filastrocche. Trasmettevano qualcosa di non conosciuto, tanto da fartelo entrare dentro, da renderlo tuo. Piano piano.
La zia Maria, figlia di un falegname vedovo e con sei fratelli; famiglia di persone che hanno conosciuto il lavoro, l'agiatezza che non ha nulla a che fare coi SUV, quella che ti fa vivere discretamente senza bisogno di chiedere aiuti. O di digiunare. Poi la guerra e la povertà più nera. Buona gente, si dice.
Mancavano di certo moltissime cose. Ce n'erano altre.
Essere educati, per esempio, era fondamentale. Non importava la fame, il desiderio, non importava il carattere. Di certo era ben chiaro che comportarsi bene venisse ben prima ed era così per la società, per tutti. La facciata spesso non era solo facciata, era proprio una dignità, un abito con cui presentarti e per cui ti si apprezzava. Pro e contro di questa cosa ce ne son stati, ma era così.

E mi immagino la zia bambina: sei sette anni, che si trova a cena, ospite, da amici di famiglia. Da sola. Sguardo basso rispettoso. Sorriso timido appena accennato. Il vestito buono per le feste. Composta sulla sedia, in silenzio. Mi immagino la fine della cena, gli scambi di parole gioviali, ma misurati e il padrone di casa che le si avvicina e le chiede:

   "Maria, la vuoi un po' di marmellata? Ce l'han portata proprio ieri."

Lei, ed è come se la vedessi arrossire di pudore, risponde:

  "No, grazie."

E sta in silenzio, ferma, da brava. Non moriva di fame, non ancora. Però di marmellate, seppure avesse la fortuna di conoscerne il gusto, non ne vedeva poi molte. Il suo no, deciso, non era che il rispetto dovuto a quella domanda, a quell'adulto gentile. E poi la vedo fremere, per sbloccare quel silenzio educato. Forse l'infantile desiderio che l'uomo insistesse fino a spezzare quel rito è più forte del rispetto. Forse il rispetto non si incrina affatto in questo modo. Dai miei occhi percepisco solo tenerezza. Mi sale una voglia di stringerla.

Ed è sempre bello riascoltare che non ha resistito, ha alzato la testa verso l'uomo per richiamarne l'attenzione e con voce sottile abbia chiesto:

  "Scusi, me la può domandare di nuovo, quella cosa lì?"

Yawp!

Sarà che son cresciuta col piccolo principe e la sua rosa arrogante e fragile, che lui ama alla follia nonostante sia così egoista ed insincera. Ma è facile che quando non penso, che quando la mia mente è sgombra, io finisca per pensare qualcosa di facilmente riconducibile a "L'essenziale è invisibile agli occhi".

Pensavo ai "gesti dell'amore". Quelli che, nei film e per l'educazione ricevuta, ti dovrebbero far capire dove c'è amore e dove no. Insomma dovrebbero facilitare la strada: notare la galanteria, sentirsi dire certe parole usate ad hoc, l'immagine dell'uomo/la donna ideali, i fiori, i regali, l'assecondamento delle aspettative.
In parte tutti sanno che sono clichés. Tutti. Eppure sembrano più rarità, quasi regali difficili da trovare, ma che se uno ha culo, SBAMMM, si becca il pacchetto completo ed è per sempre felice e contento. Come se i grandi non fossero che bambini cresciuti e sfortunati, perché la loro favola si è rotta e il loro cuore rimarrà sempre là, spezzato ed angustiato, mentre la testa si ripeterà che è colpa di qualche categoria, che il mondo va male e che la vita è difficile. Ma da qualche parte quel cinismo, quella rabbia avvilita, si riconduce a quelle favole che li hanno imbrogliati. Anzi, convinti. Convinti che in fondo potrebbe essere andata meglio, ma non l'ha fatto per sfortuna, per caso, perché niente è perfetto, ma... magari per qualcuno.. magari un giorno.

Più mi ostino ad ordinare la mia camera e più il mio intento non è finire di sistemarla, ma rendermi conto di quante cose, qui dentro, non dovrebbero esserci. Sono andate, non mi appartengono, non le ho volute o non le voglio più, sono appassite.
Ed è così. Ci si innamora tramite tante cose, che ognuno cataloga in gesti e segni che ci definiscono. Un libro è solo un libro. Ma poi lo tocco, lo sfoglio, l'annuso e magari lo consumo e lo divoro e mi piace o lo detesto, ma spesso continuo a credere che sia il libro il punto. Il libro è già passato, è dentro. Rileggerlo sarà ancora diverso. È quello che ogni volta passa o non passa, che stravolge le cose.

Mia nonna aveva un orto pieno di fiori, magnifici. Vederla curarli con l'affetto che si riserva ad un figlio era uno spettacolo commovente. I gesti sicuri, la pazienza, la curiosità, l'attesa. Tutto era un rito e fiorivano meravigliosi. Puntualmente coloravano i miei pomeriggi passati  tra il cortile e la casa e non mi rendevo nemmeno conto del ricambio. Sì, perché nonostante tutta la cura del mondo, in breve tempo sfiorivano. Ho ricevuto molti fiori e sono tutti sfioriti, appassiti. Hanno vissuto il loro tempo e probabilmente anche meno di quel che avrebbero potuto restando ancorati alla terra.

È così bello e necessario toccare le cose, giocarci, personalizzarle, apprezzarle. Però sempre si consumano, sempre. Forse crediamo che sia necessario tenerli con noi, fino a che non capiamo che non servono quegli oggetti. Serviamo noi, con loro. Serve che ci trasmettano qualcosa, che prima di appassire profumino, ci facciano capire quale parte di loro si insinuerà in noi per sempre. Come la favola. Ed è fondamentale capirlo.


Non per sempre servono i fiori. La bellezza sfuma e cambia, la guardi e già non c'è più. Ciò che resta è quello che è cresciuto dentro, in quello sguardo che ha colto l'attimo per amare quello che vedeva.

martedì 25 ottobre 2011

AccaDueO

Seduti sul fondo d'una massa d'acqua mi viene in mente che ci si debba annegare. Così la legge impalpabile del mondo suggerisce. Ordina. Ma credo che, prima, si possa rimaner vittime del terrore di arrivarci, laggiù. La paura fradicia che mi scorre sulla schiena e mi fa dire che conosco già il finale. E che conoscendolo, non vale la pena di appurare se sia vero o meno quello che credo di conoscere. E così un giorno scopro che oggi è l'aria che mi fa rimanere senza fiato e che l'acqua mi nutre, mi dà vita. E che respirerei lì giù, come d'ovunque, se solo riuscissi a credere veramente. Ed è incredibile come la materia, che mi è tanto essenziale e mi è cara come la vita stessa, finisca per spaventarmi e limitare sogni e realtà.
È che non si afferra. Non la posso sentire mia, se non lasciandomela scorrere addosso e dentro con una tale libertà che mi stordisce. Quella spontaneità di esserci o non esserci, propria di ciò che è puro. Di ciò che è talmente generoso da essere lì per te. Veramente. E lì per ognuno. Nessuno escluso. Veramente.
Resta sempre quella consapevolezza che c'è, ma scivola un passo più in là. Per dire qualcosa, forse. Per farsi seguire. La sensazione che l'unica cosa da cercare sia la strada per crederci di più. Che si può cambiare con pazienza e semplicità ogni cosa. Che c'è il tempo per tutto e per questo non c'è tempo da perdere. Che non ci si può perdere sempre in un bicchiere d'acqua. Che sott'acqua si può respirare. Dirò di più. Vivere.


lunedì 17 ottobre 2011

(E)virare

Pensavo a Roma, a come una manciata di buzzurri abbia vanificato il movimento di una massa enorme e pacifica. Che poi, vanificato. No, non l'ha vanificata. È che le telecamere son puntate male. Certo che per essere una che porta gli occhiali da quando aveva cinque anni accorgersi solo ora di quanto sia importante il punto di vista... fa ridere.

È che siamo troppo abituati a pensare che ciò che non vediamo è perduto.

Da piccola, piccola da non saper leggere, chiamavo come una forsennata perché, dopo la sigla del cartone, qualcuno venisse a leggermi il titolo della puntata. Il sapore del cartone cambiava molto da quel particolare. Non ci ho mai pensato ma è un po' come se fossi stata certa di non capirci nulla del cartone, senza leggere il titolo. A pensarci la metà dei cartoni che guardavo erano censurati, per cui era facile non capir niente tra una scena e l'altra: mancavano sempre scene di sesso, che davano senso alla reazione dei personaggi. Perché cavolo tutti ce l'avevano con Georgie l'ho capito in età avanzata.
E io che credevo fosse un problema di titolo. Di partenza.

Vedere Roma a ferro e fuoco mi ha messo rabbia, tristezza, molte cose. Ma soprattutto quella sensazione che si ha in classe quando il prof si incazza perché uno fa un disastro in aula e lui diventa il centro di tutto. E così si perdono lezioni a sentire il professore che si sfoga e dice che la classe non lo segue, che non c'è impegno, che non accetterà mai più volontari, che si stava meglio quando si stava peggio. Che è deluso.
Il bello è che gli studenti son già delusi, lo eravamo già, incazzati pure noi perché eravamo seduti sui banchi e lì, è vero che ascolti, aspetti e devi rispetto, ma è anche vero che sai di non aver il potere di dire del tutto la tua. Meglio: per la prima volta devi rivelare te stesso, trattenendoti in base a regole non da te decise, né sempre capite.
Quello che c'è di profondamente ingiusto è che farsi ascoltare pacificamente è molto più difficile che non prendendo ad accettate il banco. Questione di priorità. Questione che, chi sta zitto al primo banco, pare non abbia niente da sistemare dentro di sé.
Poi succede che sei adulto e vuoi dire la tua, sai che per la società conti un po' più di uno studente seduto in aula. Ma anche no. E così ti organizzi e vai a Roma e in tanti ci vanno. Tanti vuol dire un mare. E ancora una manciata di persone fa il cattivo tempo. E non è un gioco. È come un gioco, ma con armi vere, con fuoco vero e sangue. E tu ti aggrappi a quei cappucci che non ti appartengono, perché a te va proprio di mostrare la tua faccia, sei stanco di gente che tace perché in fondo tutti nascondono qualcosa.
Non è vero. Con tutto il mio pudore, non nascondo nulla.
La gente avrebbe bisogno di un sistema che la protegga, di prof che non si perdano una classe per elucubrazioni su una sola persona, di una nazione che apre gli occhi sulla massa, su quella che ha il coraggio di mostrarsi per quello che è, che ha difetti e oscurità che la rendono bella quanto i suoi pregi, che si schifa di chi si nasconde, di chi fa violenza, di chi approfitta del dolore. Di giornalisti che chiamano vigliacchi, i violenti, che hanno il coraggio di togliere la telecamera da una scena sanguinosa che può far audience, per raccontarla e basta, in modo distaccato ed avvicinarsi invece alle parole di chi ha il diritto di parlare, di chi è stanco per davvero, di chi è italiano ed è deluso perché in quest'Italia ci ha creduto tanto e ora, non solo non ha nulla: non sa più nemmeno se sperarci.
Il danno, la beffa. Ecco, gli ultimi vent'anni son stati una beffa, una beffa amara. Ma non mi interessa.

È davvero ora di virare.


venerdì 14 ottobre 2011

At par?

Se c'è una cosa che la vita insegna è che, per ogni istante di attenzione prestata a qualcosa, qualcos'altro perderà il tuo sguardo. Ci son quelle persone per cui ti pieghi in due, le cerchi, ti lasci spezzare perché sono loro e niente al mondo ti distoglierà da quella fatica di amare senza ritorno, né dallo sguardo che ti si fa dolce proprio in quella direzione e non in un'altra. Ci sono persone che ti cercano con l'amore tra le mani e ti investono di un'adorazione che, però, non basta a farti volgere lo sguardo.
Poi ci sono sguardi che si ricambiano. Gesti che ne chiamano altri in risposta, sentieri che vanno attraversati insieme e nessuno sbarramento merita la nostra paura. Come se ci fossero persone che alzano gli occhi quando lo facciamo noi e l'incontro è pulito, netto. Qualsiasi regola ti sia stata accollata addosso, perde il suo significato assoluto, fino a che quell'incontro non avviene. E deve avvenire. Più lo rifuggi e più ti insegue e ti si ripresenta sorridente alla porta.
E così vaghiamo senza saper per dove e quando è il momento e come fare e che senso abbia. Ed è tutto uno scoprire, imparare, cadere e arrivare, ripartire e credere e disilludersi e crederci di nuovo, con nuovi segni addosso. Che anche le cicatrici si trasformano in rughe.

Tutto questo si frantuma di fronte a quegli sguardi di prima. Alle parole e ai silenzi nati in quegli incontri a cui prestiamo attenzione. Quelli che, quando la prospettiva cambia, ti accorgi che ti mancano dentro come l'aria, come lo scorrere del sangue nelle vene e la pelle che ti si rigenera addosso. E ti mancano lì, proprio nell'istante in cui ti distrai un attimo e credi che riguardare basterà a riportarle lì. Come quando aspetti che il treno parta, per coglierne l'attimo e sempre, immancabilmente, ti rendi conto che si muove sempre un istante prima di quando ne hai coscienza.
L'attenzione ci viene meno in certi momenti, non possiamo evitarlo. Anche per le persone che resteremmo a fissare una notte intera e tutti i giorni a venire, solo per il piacere di guardarle. Ma alla fine le palpebre si chiudono, per potersi riaprire, e cedono. A volte ritrovano un paesaggio del tutto nuovo al loro risveglio. Ma quelle persone non le dimenticano. Gli occhi devono sapersi chiudere, ma non dimenticano ciò a cui hanno prestato attenzione.

venerdì 7 ottobre 2011

Something in the water

Si sta nudi, a volte. Dentro una vasca da bagno che ci contiene appena. Una vasca bianca, che non sa mai essere candida come la si dipinge. Bianca, ma non pura. E scende l'acqua da un rubinetto argentato, familiare di graffi ed impronte. Scende tiepida dal telefono storto, con un serpente di filo ad avviluppare il rubinetto, quasi a sostenersi, quasi a soffocarlo.
Gambe incrociate e il corpo mi si proietta in avanti, senza forze. Vedo i piedi rilassarsi e muoversi appena sotto l'acqua che sale lenta e inesorabile, senza chiedere permesso. Si muove, scossa da altra acqua, ribolle e si calma e ingrigisce sulla fatica di un corpo stanco e avvilito che si guarda affondare dove prima sedeva.
Alzo gli occhi sul bordo. È bianco, sul serio lo è. Riflette l'eco delle pareti e il silenzio sporcato dallo scroscio silenzioso e continuo, che abitua le orecchie e le disturba senza farsi notare.
Non è così bianco, quel bordo. La polvere, un capello, gli schizzi. Non è così bianco, come potrebbe essere.
Ma potrebbe?
Afferro una spugna ormai secca. La lascio cadere e osservo come l'acqua sia lenta ad insinuarsi, ma non si fermi fino ad averla ritornata morbida. La sfrego su quel bordo, fino all'angolo. Striscio, forte che vedo le dita impallidire, decise e corrugate per quel tempo passato ad arrendersi all'acqua.
E mentre il mio gesto diventa meccanico, la mia mente si distacca e graffia la superficie, gratta lo smalto, lo fa sparire e piano piano consuma il bordo e la vasca e la parete e l'acqua è libera di occupare il suo spazio. Lo ruba presto all'aria e si scontrano, si abbracciano e scambiano particelle e chissà quali vibrazioni, quali equilibri. E il corpo resta nudo, lì. Squassato da qualche sighiozzo che ormai si calma e lo lascia spossato a terra. Bagnato di vita. Spossato.
In mezzo ad un nulla che lo protegge da tutto.

sabato 1 ottobre 2011

La Teoria della zanzara

Saranno state le tre, stanotte. Mi sveglio con due punture allucinanti di zanzara sul braccio. Va beh. Mi rilasso, sto ferma, cercando di non pensare al prurito, come dice mio papà.
Ma come cazzo si fa??   Ehi! Ci sto riuscendo.. magnifico!
Ma immancabilmente arriva. La zanzara, dico. Arriva con quello strafottente ronzio. Reazione immediata: mi giro di colpo prendendo a sberle il cuscino vicino all'orecchio che provo a schiacciarla nel buio, tecnica che raramente mi riesce, ma è successo. Saranno gli anni di karate. Ovviamente questa volta no.
Mi siedo a gambe incrociate, accendo la luce e guardo in giro. Gli occhi a fessura non c'entrano nulla col sonno, è proprio un tentativo di fulminarla a distanza. Mi occupo degli angolini strategici vicino al letto. Poi la vedo. Mannaggia è di quelle furbe semi trasparenti che vanno veloci e non sono appesantite dall'abbuffata. Non c'è partita, la manco e sparisce.
Spengo la luce e parto col piano B: mi copro. Fortuna che non è estate, è finito anche settembre (a proposito: avete svegliato i Greenday?). La copertura è strategica, lascio fuori solo il viso per sentire se passa ancora.
 La cosa si ripete altre tre volte: la sento, picchio il cuscino, luce fu, la vedo, la manco, inveisco, click, di nuovo buio. E in quello stato mummiesco con scatti improvvisi e momenti rabbiosi, finisco per dire: chissenefrega, che mi punga. Non ne posso più.

Ecco. È nata così, nell'attesa e nella lotta, la Teoria della zanzara.
C'è un momento in cui sopporti per quieto vivere, ma poi per esasperazione inizi a credere che dopo tutto un po' di sangue può proprio succhiartelo via, che mica sei possessivo e che poi, in fondo, va bene così.. ecco. Mi son vista Silvio, sì, Berlusconi e Brunetta e la Gelmini e la Lega tutta e la massa di idioti che si permette di ronzare per il Parlamento comportandosi allo stesso modo. Zanzare tronfie di potere e denaro. Così fan tutti? Sempre state? Sì, può darsi. Eccolo qui il punto. Una la scacci con la mano e poi ritorna e poi non sei mica capace di ucciderne la voglia di prendersi a poco a poco un po' di più.
Con la storia che i ladri ci son da sempre si accettavano svolazzanti anche in buona vista, solo l'evidenza del loro essere vampiri finiva per farli dimettere. Un tempo.
Poi basta. Un passo alla volta, l'abitudine, la rassegnazione stanca. Ed ecco che va tutto di nuovo bene così. Va bene il puttaniere perché non siamo più puritani (solo con lui, pare), va bene la mancanza di stile, il grezzume, la presa in giro, dire una cosa e negarla subito dopo, il fatto che il Parlamento sembri più l'Anticamera del carcere che permette di non raggiungerlo. E poi il fatto che i leccaculo siano prolificati, che l'ignoranza si crogioli nei suoi tunnel immaginari, che il razzismo sia una cosa così da ridere, che i soldi comprino tutto, che dopotutto ognuno ha il suo sporco da nascondere.

Ma chi? Ma dove? Ma quando? Ma perché?

Ma quanta pigrizia ci fa star qui, a rigirarci nel letto e sperare di riaddormentarci prima di accorgerci del sangue rubato? Ma quanta paura di dire, di fare, di esserci? Quanti silenzi, quanta rabbia formale? Quanta Italia dobbiamo veder marcire ancora prima di rivoluzionare il nostro spazio nella società, per liberarci dei ronzii che copriamo con tante giustificazioni?

Anche i dinosauri c'erano e non ci sono più.
Magari con loro siamo stati più convincenti.

martedì 20 settembre 2011

Pam.

Ho raccolto un sassolino. Nello spiazzo di un piccolo cimitero.
Amo i sassi che trasformano il peso dei ricordi in una forma unica e matta. È piccolo e arrotondato. Piatto su un lato, che lo si può appoggiare comodo. Ed è grigio. Semplice. Con una venatura scura che lo attraversa e sembra una fessura, un piccolo crepo. Ma non lo è. È un disegno particolare che sembra ferirlo all'apparenza e invece lo rende unico. Per questo l'ho scelto, perché alleggerisce un ricordo lontano, ma presente, che non mi appartiene, ma lo stesso è entrato in me.
L'ho raccolto per ricordarmi della bellezza, della libertà che graffia per affermarsi e non sembra farcela e invece ce la fa; per tenere in mente l'imprevedibilità delle cose e il loro senso che scivola sempre oltre noi, come fa l'acqua coi sassi, appunto. Li accarezza, li lascia sassi, ma li consuma, li cambia. L'ho scelto per ricordarmi di come, nonostante controlliamo così poco, lo stesso il mondo ci parla tanto, ci modella e sa osservarci mentre ci modelliamo. Ci abbraccia quando ce la facciamo, ma di più se crolliamo.
Perché il tempo non esiste, ma impazziremmo senza scandirlo. E le scelte vere che facciamo hanno sempre un istinto oscuro e profondo, che ci illumina da dentro e ci rende liberi e un po' più felici.

Grazie Max.

domenica 18 settembre 2011

cocci di un giullare

Mi son rotta.

E i cocci sono miei.

Mi son rotta, spezzata, frantumata mille volte. Ricostruita e incrinata ancora lungo le stesse fessure fragili, che a stento la colla dell'ottimismo teneva insieme.

Quand'ero piccola ho corso tanto, senza ben capir per dove,
ma arrivavo sempre prima e aspettavo nuove prove.
Qualche volta è capitato di far viaggi un po' per niente,
ma così ho poi imparato ad amar di più la gente.
Caduta, qualche volta, fatalmente sull'orgoglio,
ho rischiato d'imparare sol facendo quel che voglio.
Tanti amici hanno riempito quel distacco che sentivo
con il mondo di quei grandi che, fortuna, non capivo.
Ed ho usato male il cuore, credo poi, per molto tempo,
forse barricando troppo quello che ci stava dentro.

A volte scontrosa o solo un po' superficiale,
dolce che proteggermi veniva naturale
ottimista ingenua o altezzosa, non lo so,
ma ho ferito con la faccia
a cui non si dice no.
Lo devo aver fatto
e per questo io tacevo,
sulle cose che sporcavano
il posto a cui tenevo.
Non c'ho mai creduto
che il mondo fosse pulito,
ma in fondo lo speravo
che l'avrebbero guarito.
 
Poi la vita si è destata ed ho provato anche ad amare,
con quella leggerezza di chi proprio lo vuol fare.
Abbandoni, negazioni e pure qualche diamante
a ricordarmi che in fondo non è così importante:
con certi amici va bene e con altri va male,
alla fine poi conviene sentirsi un po' speciale?
Domande a centinaia sono impazzite dentro,
in un posto che non so se si trova ancora al centro.
Crollava l'illusione che altri potessero capire
e la voce, intanto, si spegneva per non dire.

Quanti anni son passati a rincorrere un assenso,
con la rabbia nel sentirne volare via il senso.
E si prega terra e cielo e chiunque stia vicino,
quando senti che sei solo, ma soltanto un ragazzino.
Dicono che la musica liberi anche gli animi più inquieti,
ma i pensieri e le domande in me restavano consueti.

Il principe azzurro inconsciamente una aspetta di trovare
e poi invece la realtà ti tocca d'incontrare.
Beninteso, lo so certo, e non è affatto deludente
ritrovarsi tra le braccia di chi ama senza ch'hai fatto niente.
Non lo so cos'è accaduto, cosa dentro si è incrinato,
so che quel che avevo dopo un po' non è bastato.
Le domande, vecchie amiche, non mi han mai abbandonata
e la vita che ho scoperto poco a poco mi ha cambiata.

Ed ancora ci son giorni che finisco per pensare,
che tutta questa struma sia un errore da aggiustare.
Tempo perso e paranoie mi han legata all'impressione,
che di soffrire così tanto non ce ne fosse una ragione.
Il ritardo è poi il dilemma di una che correva tanto,
per accorgersi, alla fine, che la gente amava accanto.
E l'indipendenza è quel traguardo che sentivo già all'inizio,
sembra strano ma l'Amore mi ha lasciato quest'indizio:
che paure o non paure da sola mi conviene fare,
e che quando son serena tutto quanto posso amare.

Poi mi prende quella smania, quella voglia di giocare,
che mi spinge a venir fuori e lasciarmi accarezzare
che mi fa ridere di gusto con lo sguardo di un bambino
sentendo che scavare a fondo è sempre stato il mio destino
e la gente che ho incontrato, c'è chi non resta e chi rimane,
ma alla fine tutta quanta io mi sento d'abbracciare.

mercoledì 14 settembre 2011

I have a dream.

Che poi.. 
andare a letto presto
a mezzanotte,
perché bisogna cambiare orari che se no
qui
non si dorme mai
e si finisce per diventar pazzi..

e poi svegliarsi alle quattro di notte
(come Califano, per dire)
e, ad alta voce, esclamare a se stessi:

"Stavo facendo il sogno di qualcun'altro.. stavo facendo il sogno di qualcun'altro!!!"

[..e si finisce per diventar pazzi..] cit.

Troppo tardi.

mercoledì 7 settembre 2011

Tutto è veramente bello.

Amigos! Finita quasi l'estate e resto qui a stupirmi.

Naso all'insù come facevo da bambina. Ma anche sguardo a terra se no poi si inciampa, da brava camminatrice in montagna. E un occhio agli altri, che ci sono anche loro e uno allo specchio per assicurarsi di non aver raccolto, col viso, pensieri troppo evidenti.
Non è per quello che l'estetica è così in voga? Non ci si guarda un po' per tenere tutto sotto controllo? Osservando quel che vedono gli altri di noi, quando in realtà guardano, ma vedono tutt'altro con i loro occhi? E non si evita di guardare per paura di non amare quel che si vedrà?
Non per niente noi occidentali abbiamo fama d'essere rammolliti, perduti e un po' vuoti di noi, riflessi di una società depressa, in tutti i sensi. Affondata. Appesantita dalla tristezza, nella sua superficialità. Ci viene venduta a caro prezzo una tristezza a cui rispondere con un sorriso forzato, che non sale neanche più alle labbra e quindi, consumato quel leggero torpore della malinconia, è nato il commercio dei rimedi inefficaci e placebo a quel magone inutile, che non ci appartiene, non è il nostro, ma a volte lo teniamo stretto lo stesso.

Va' a murì ammazzato. Eh. Vaccacane!

Un'estate strana, questa. Ho smesso di guardarmi con lo stesso sguardo, l'ho addolcito, forse, e questo deve avermi messo in faccia segni di sereno e selvaggio, non so. Tipo quando guardi un gatto, che magari ti scruta serio, ma non ti senti giudicato, ti mostra la sua natura elegante, la sua voglia di coccole o la sua rabbia, ma in quel modo bello che solo la natura sa creare.
Avevo accantonato l'idea che l'uomo è un animale. Quelle cose che son dati di fatto, ma poi l'esperienza può far pensare che le eccezioni siano più delle regole. Probabile. Ma l'essere umano rimane un animale. Ho messo via, in un colpo solo, l'idea di uomo come puro istinto senza responsabilità, ma soprattutto quello di essere umano pensatore a miglia di distanza dalla natura. La sua natura. Nel mio cambiamento c'è stato un salto nel vuoto che non solo mi ha spettinata, scomposta e ricostruita in volo, ma ha anche magicamente cambiato molti sguardi intorno a me. Verso di me.

Non mi importa più molto di sapere il perché preciso di tutto questo. Forse non ne esiste uno solo, né capirò mai totalmente quel meccanismo magico per cui inizi a voler bene ad una persona proprio per quello che è e nient'altro. Non volendo altro che accompagnare i suoi cambiamenti, accarezzarli, scuoterli, affondartici dentro e sentire l'esigenza di riallontanarti, creando dinamiche uniche e indescrivibili, a volte. E succede sempre in un modo che non ti aspetti, ma che diventa parte di te. Non mi importa più.

Un annetto fa mi guardavo alcuni video, a base scientifica, secondo cui noi possiamo veramente decidere molto di quello che siamo, anche a livello fisico. Perché, se è vero che siamo fatti di proteine e geni, siamo comunque noi a influire su di essi e non viceversa.
In genere quando uno si convince di una cosa del genere, finisce per fondare un nuovo culto e perdere di vista la realtà. Fortunatamente sono guardinga e graduale e credo di aver capito bene cosa intendesse il medico che parlava, col fatto che dipende solo da noi.
Ovvio che a capirlo ci ho messo il mio tempo. La percezione iniziale, nata in me tempo fa e che ho accettato, è che lottare contro corrente sia inutile. Parlo di corrente come Vita, Natura.
[Contro la corrente di molte mentalità comuni e retrograde resto in direzione ostinata e contraria, naturalmente!]
Ma non perdiamoci.. mi è stato sempre più evidente, in modo concreto, di quanta energia frantumassi contro onde enormi a cui non potrò mai far fronte, perché non dipendono da me, ma lì in mezzo, ci sono anch'io. E questa idea dell'impotenza in mezzo ad un oceano di Vita mi deve avere inquietata parecchio, perché per molto  ho boccheggiato per non annegare.

Poi.

Bonaccia.

Improvvisa? Costruita? Gentilmente concessa? Non lo so.
A quel punto iniziavo ad agire io.
Si è sgretolato un mondo fittizio, certezze di cartone, pensieri a spirale che finivano per ferirsi da soli, aspettative sleali. Le aspettative. Sì, quella sensazione che avevo sempre di ipotizzare quel che sarà in almeno cinque o sei modi diversi, come le storie a bivi su Topolino. Sensazione di eterno tunnel da percorrere, in cui disperarsi e arredare per non uscirne pazzi. E invece non c'era nessun tunnel. Macerie. Polvere. Tosse e buio.
Il buio, che in modo così sottile può spaventare.. ma, a conoscere la teoria dei colori, ci si domanda se il colore sia la vera essenza delle cose o solo un rilfesso di quello a cui permettono o meno di penetrarle.
E, secondo me, le persone sono un po' così, con la sola differenza che possiamo scegliere il nostro colore, decidere se assorbire tutto, come spugne matte che rimangono intrise di nero pesante e denso. Possiamo scegliere di riflettere tutto, di dare a chi nulla e a chi molto, di lasciarci sfiorare dal colore degli altri, di sfumare, accecare,
perderci in un miscuglio di energia che ci rende vitali o impotenti a noi stessi.

Con quanti mulini a vento mi son vergognata di combattere quando, poi, ogni disfatta si è rivelata una vittoria.
Così, nell'ultimo periodo, non c'è stato spazio per la paura, per l'amarezza e lo stordimento. Né per diffidenza e rabbia o anche solo per uno sfogo stanco. C'è stata allegria, ironia. C'è stato silenzio nella stanchezza. Riposo e anche volontà di usare energie nascoste e potenti. Voglia di ascoltare, di ridere e guardare dritto negli occhi. Di mangiare di gusto e di gusto amare. Sete. Di acqua e curiosità. Di giocare senza timore di sembrare bambina. Di pensare con la bellezza di essere ancora una bambina.

Ciò che è certo è che questa sensazione di pace sfumerà in fretta. Tra la tesi che stringe la gola e il senso di fallibilità che tende sempre ad ingrigire ciò che vedo e sento in me, spegnendo un po' lo stupore e la bellezza di non dover rincorrere qualcosa per trovarlo e goderne, insinuando quell'ansia di aver perduto l'unico attimo utile per conquistarlo.
Eppure qualcosa è cambiato.
Sento distratta una notizia al Tg, che dopo settimane di astinenza dalla stupidità, mi scorre addosso senza nemmeno farmi incazzare. Sento:

     "La pigrizia è scritta nei geni, 
non è colpa tua se non riesci ad essere attivo!"

E sorrido e mi domando quando ci siamo persi così, a trovare in noi stessi le scuse per non conoscerci, per non sfidarci ad essere migliori. E non mi rattristo, non mi arrabbio. Mi intenerisce vedere i bicchieri d'acqua in cui mi perdevo e che solo ora riconosco come tali. Mi intenerisce perché ci cadrò ancora. Però ci cadrò con la mia faccia e i miei pensieri e il mio corpo e le emozioni che, senza dir niente, si insinuano ad accelerare il cuore e pompare sangue in ogni dove, per urlare con discrezione che la Bellezza c'è. C'è.
Comunque sia.

domenica 7 agosto 2011

Sliding doors

Capiamoci: la Sbattitovaglie ha una figlia.

Una degna figlia, oserei dire. Ha pure un'auto tutta particolare, che non sto a descrivere per discrezione ma, fidatevi, è un invito non sottile ad espatriare. Ha una bandiera gigantesca disegnata sul tetto e pessimi gusti musicali che si diffondono nell'aere quando decide di parcheggiare.

Dovete sapere che il mio condominio ha tre entrate differenti, tutte sempre semi-aperte e/o rotte, ma non importa. L'amministratore è andato incontro alla pigrizia atavica condominiale: puoi uscire da dove ti pare e non è mai troppo lontano. Tant'è che, anni fa, si è giunti ad inaugurare un porto di mare dai flutti di catrame.. passano cani e porci, insomma, ma anche questo non è importante.

Il punto è che il passatempo preferito della figlia - che chiameremo Voltalafaccia, per l'amore sconsiderato che ha verso saluto cortese - è lasciare l'auto accesa, a portelle spalancate e musica a palla, tra due delle tre uscite. Lasciandole impraticabili per una ventina di minuti e in balia di una musica da brivido, che invade lo stomaco e fa lacrimare le orecchie.
Negli anni ha affinato la tecnica dell'indifferenza a 360°. Ovunque tu sarai, eviterà il tuo sguardo.
È capitato di frequente di dover scendere in cortile, iniziare la discesa e rimanere incastrati tra la strada e la sua auto, pronta per il garage.
L'attesa è snervante, proprio perché ignora la tua presenza con impegno certosino. Naso all'insù, scende con una lentezza che a confronto un bradipo morto la doppierebbe tre volte.
E mica perché non abbia gambette funzionanti, macché.. lentezza calcolata! Ogni passo trascina menefreghismo e supponenza qb. Tu la fissi, come Benigni fa con la lampada, cerchi il suo sguardo per farlo litigare un po' col tuo e.. niente. Irraggiungibile. Anni e anni di pratica, che ci vuoi fare.

Alza la basculante. Entra nel garage e ci sparisce per dieci minuti. Così, tanto per sottolineare che il potere ce l'ha lei. Rieccola di ritorno. Rallenta pure, che quasi va all'indietro. Dopo quei venti minuti standard sale in auto e nel giro di quattro secondi ti piazza la quattroruote in garage, andando in retromarcia a tutta velocità.
Entrata per-fet-ta!
Roba che ogni volta ci rimani secco. E son convinta che lo faccia apposta pure questo. Sì, perché ti sfotte proprio: è di quelle donne che sanno guidare da dio  (sì, uomini, fatevene una ragione, che c'è la parità anche lì), ma anche di quelle donne che, per aiutare le vecchiette ad attraversare, le spalmerebbero sulle strisce.

E tu rimani lì come un'ebete. Ti congratuleresti, se non ti ispirasse tanto istinto omicida.
Mentre scendi, ti giri un attimo ed è già fuori dal garage, con le chiavi in mano, pronta a salire.
Corre, corre, ora. Lo sai che il suo scopo è fregarti l'ascensore e che, se la becchi quando non è ancora chiuso, alzerà lo sguardo al neon e premerà con decisione. Li mortacci.

Oh, ma che soddisfazione quelle volte che la frego io, prima che spinga il pulsante e le dico radiosa:
  "Ciao [Voltalafaccia che non sei altro]!!!!"
e lei, straziata, boffonchia qualcosa, mentre io mi faccio - lentissimamente - le scale, leggera e svolazzante!

venerdì 29 luglio 2011

Epilogo

"In fondo ad ogni credenza c'è una verità. 
In fondo ad ogni salotto c'è una credenza. 
Questo dimostra inconfutabilmente che i salotti esistono..
(Groucho Marx)
..e che, se non stai attento, possono essere invasi da gente molesta.


Mi sembra pazzesco che la porta sia davvero chiusa e che i due simpatici bontemponi da condominio siano dalla parte giusta, cioè fuori da qui.

Sospiro di sollievo.

Mia mamma si sta preparando trafelata (doveva uscire davvero in tutta fretta), mio papà scende in cortile ad aspettarla. Torna la routine: devo comprare savoiardi, latte e mascarpone. E pure correre come una pazza, perché del mascarpone non c'è da fidarsi. Pare che, secondo mia mamma, possa rovinarsi al solo pensiero di uscire dal frigo, trasformandosi in un blob maestoso e funesto, pronto ad infierire sul mio meraviglioso Tiramisù.
Ci credo poco, ma sì, correrò come una pazza. Sono ancora abbastanza giovane per fare certe cazzate, come raggiungere in 40 secondi il supermercato (mi alleno per il ritorno), entrarci fradicia e tachicardica, incurante del divario di trenta gradi centigradi tra esterno ed interno, accarezzare un paio di pinguini sulla testa e tornare in 35 secondi (che al ritorno si fa sempre prima). Ecco, mi scrivo tutto, sia mai che, corri corri, mi dimentico il mascarpone e...

   DRRRRRRRIIIIINNN!!!

Non so descrivere la mia faccia inebetita a fissare la porta, ma la si può intuire con un po' di empatica fantasia.
Sbattitovaglie è di nuovo qui! Saran passati dieci munuti a farla larga. No, non è una sorpresa della Carrà, è proprio un horror.
Le apro. Tanto ormai..
Mi guarda con degli occhi da Bambi, il che non mi rassicura affatto.
Ha in mano una tanica d'acqua e mi fa (con voce tremula, tipica dei serial killer insicuri, ma efficaci):
  "So che tua mamma stira" - ah beh. È un'accusa? Stiro anch'io ogni tanto, che si crede?? -
  "Ecco, ho quest'acqua per stirare, so che la usa.. se no io la butto via..".

Dev'essere acqua avvelenata. Non sarebbe comprensibile, se no, una tale foga nello sbolognarla a noi. Personalmente non so se berla tutta, lì davanti alla porta, così per stranirla un po', per far cadere l'inganno e fregarla. Invece son troppo buona e le dico che è gentile, ma che non ce n'è bisogno. Siamo apposto.
Insiste, ovviamente.
Cerco conforto materno con gli occhi. Tenendo conto di quanto mia mamma sia conciliante col pubblico (io faccio parte del privato), è un po' irrigidita, ma le dice cortesemente che non importa. Casualmente ha riempito la tanica giusto il giorno prima, quindi non serve. Grazie.

Sbattitovaglie ha la faccia sbattuta, ora:
  "Che faccio, allora? La butto? Va bene, se non vi serve.. se non vi serve la butto".
Non si muove. Rimane lì.
...
...
  "Paola, mi prenderesti un bicchiere o qualcosa?"
  "Per cosa, signora?"
  "Per l'acqua, no?? So che tua mamma la usa.."

L'assurdo mi invade. Questa qui gli fa un baffo ai paradossi di Groucho Marx.

Rispondo, ormai senza convinzione, che quell'acqua non serve (NON LA VOGLIOOO!).
Vedendo che ancora non si scolla dall'entrata, vado in cucina quattro volte, avanti e indietro: il mio subconscio cerca un'arma contundente (e poi contro un dente), le mie mani trovano una vaschetta di gelato, vuota.
Mi giro, è entrata e ha già svitato il tappo. 
Le mostro la vaschetta e le dico che ne metta quello che ci sta, che non ho altri contenitori (né altra pazienza).

Credo che soffra di sordità selettiva: se dici qualcosa che non le garba, momentaneamente non ci sente più. Per cui inizia a rovesciare la tanica senza neanche aspettare il contenitore. Mi fiondo sotto con la vaschetta. Appena in tempo. Beh a parte l'acqua che mi gocciola sui piedi. Quando è quasi piena glielo faccio notare. Lei continua, non può mica buttarla via! Non se ne fa nulla. Sapessi io..
La fermo con decisione.
  "Basta, basta! Vede? Non ce ne sta altra!!! Grazie e arrivederci.. stiamo per uscire, sa?! Arrivederci, arrivederci!"
  "Ma.. ma.. ce n'è ancora un po'.."
  "Non importa, la butti pure" - e mi guardo i piedi bagnati. Uffa! - "Arrivederciiiiiii" - Non in senso letterale, per carità -.

[Silenzio]

E ora, con quell'acqua lì, che si stira? Quelle mutande di lana che solo a vederle fan venire prurito??

venerdì 22 luglio 2011

A volte ritornano..

[continua]

Passa un solo giorno. Dalla luccicanza, intendo, e io ho già rimosso l'accaduto. Il caldo è sempre pazzesco: è bene sottolinearlo per amor di cronaca e per giustificare quel che verrà con l'effetto allucinogeno dell'umidità dell'aria.
Suonano alla porta e apre mio papà. Sento un tipo sconosciuto parlare. Allungo l'orecchio e mi raggiungono solo due parole:
"quella là".
Illuminazione tragica. Come quando la signora Fletcher ricorda un particolare insignificante che la congiunge astralmente alla verità assoluta (anche perché è così furba che le sue puntate le ha già viste tutte). Ma non divaghiamo.
Mi fiondo in salotto: è proprio il tecnico della tv, dopo il consulto della Sbattitovaglie! Mannaggia.
È incazzato nero, entra di botto in casa. Mio papà è combattuto: vorrebbe strozzarlo o prenderlo a pedate.
Nel dubbio lo guarda molto storto.
Intervengo io:
  "È per la tv? Ieri è passata la signora qui sopra.. "
Mio papà allarga a me lo sguardo sbieco, perché non ne sa niente e ora che sa di non sapere, come Socrate, la cosa lo secca parecchio.
Interviene il tecnico:
  "Ah beh, proprio quella lì!!! Quella lì è matta! Continua a dire che non va niente, è la quinta volta che passa, non ne posso più, adesso voglio vedere se qui i canali si vedono!!"
Sorrido, vorrei dargli la mano e dire: "Benvenuto nel club, compare", ma mi viene in mente anche "L'erba voglio non cresce neanche nel giardino del re (tiè)". Per cui evito di infierire e sorrido comprensiva, ma non basta, ecco che ricompare.. la luccicanza!
Sembra Hulk nei suoi giorni peggiori. Quando ha finito la carta igienica, per intenderci.
Cammina avanti e indietro davanti al televisore. È minaccioso quanto la Sbattitovaglie, solo che è una minaccia riflessa (o sfinimento?). Continua a borbottare come una pentola di fagioli e mi chiede di controllare i canali. Mio papà è senza parole, sta lì in piedi. Io prendo il telecomando e spiego un po' com'è andata.
Il tecnico sembra calmarsi, mi spiega come fare la ricerca manuale dei canali (lo sapevo già, ma lo lascio parlare) e troviamo La7 (TROVIAMO LA7!!!!!!!!). Solo che va a scatti (e ti pareva!), ma lui dice di aver capito (davero??) cosa c'è da sistemare. Nulla di grave, allora. Con la dovuta pazienza vedrò Crozza direttamente in tv. Fra 10 anni. Forse. Clicco il pulsante end e..

   DRRRRRRRINNNNNNN!!!!

Vacca cane, chi è adesso? Manco a dirlo. La Sbattitovaglie.
Mio papà, ormai assorbito dal suo nuovo ruolo di portinaio silente, apre con classe. Lei spinge la porta, spalanca senza salutare né dire altro, fissa il tecnico e urla:
  "Guardi che l'ho chiamata io!!!"
Mi giro, allarmata. La luccicanzaaaaa. All'ennesima potenza.
Ribadisce, tre o quattro volte e a varie tonalità, di aver chiamato lei il tecnico e che quindi è ingiusto che lui sia lì, invece che a casa sua. Quasi quasi mi viene da darle ragione: perché non state a casa vostra? Il caldo fa male e anche lo sguardo assassino nei vicini di casa. Però non mi riesce di darle ragione. Continua ad urlare.
Sarebbe il momento giusto per ribadire: 'Questa casa non è un albergo e neanche il salotto di Uomini e Donne, cvedetemi'.
Mi giro. La guardo. Mi guarda. Mezzopomeriggio di fuoco.
  "Vero, Paola, che son venuta ieri perché io avevo un problema??" - Questo è lampante, annuisco. - "Vero?? Abbiamo guardato insieme" - Insieme?? sotto minaccia, bella mia!- "Non vanno. Deve venire su da me e sistemare tutto, eh."
Continuo ad annuire, come quei pupazzetti che si attaccano in auto.
Il tecnico ha tre scelte: non la asseconda (bravo!), ma tanto meno la rassicura (e sforzati su!!!). Sceglie la trèèè e si incazza come una iena.
  "Signora, la smetta, sto facendo solo un controllo!"
Mamma mia come lo fulmina.. mi dileguo in cucina con lui per controllare anche l'altra televisione. Ci saranno 35 gradi. Fingo di essere in Tibet, accendo la tv e raccolgo l'energia nei miei chakra più elevati. Le urla di lei si insinuano nella pace interiore che sto creando:
  "Scusi, ma poi, perché mi ha detto che non tornerà mai più???"
L'atmosfera meditativa si sgretola: ma di che sta parlando? Guardo il tipo, perplessa. Mi guarda, continuando a ripetere che è pazza e che sta delirando. Non so chi mi fa più pena. Io, probabilmente.
Il tecnico, poco furbo, le domanda quando mai le avrebbe detto una cosa del genere e così lei incalza:
  "Prima, non ricorda? Era su da me e mi ha detto così. È proprio un cafone, sa??"

Spengo la tv. La farfalla appesa cade giù. Ottima idea, Bersani, ora faccio cadere giù anche tutto 'sto casino. Intanto faccio in modo che l'affare di stato si raccolga verso la porta. Mio papà la apre. Il tizio, uscendo, dice che ha capito tutto (beato lui). Mia mamma finge di dovere assolutamente uscire di casa. Sbattitovaglie urla seguendo il tecnico ormai stordito più che incazzato. Io saluto con la mano. La porta si chiude.
Finalmente.
Li sento battagliare accesi, nella zona neutra del pianerottolo. Vincerà lei, non ho dubbi.

Silenzio.

[manca l'epilogo, che è tutto un programma - che va a scatti, naturalmente]

domenica 17 luglio 2011

Luccicanza

Sono in casa. Due settimane fa. I giorni caldi fino all'inverosimile. Mia mamma agisce d'astuzia chiudendo tutto, io finirò per soffrire seriamente di claustrofobia, ma non ci penso e mi rifugio in camera col ventilatore, dove ho il diritto di cucinarmi liberamente, ma almeno di vedere un po' di luce. Ecco, smanetto col pc, leggo un po', mangio gelati confezionati, che di uscire non ne ho voglia.

    DRRRRRRRINNNN!

Ok, sono le 15.20. I miei sono fuori. Mia sorella? Figuriamoci!
Bene. Male! È la Sbattitovaglie.
Che faccio? Apro? Non apro?
Apro. Tanto è sicuro che, prima di suonare, fosse appoggiata alla porta con un bicchiere, pronta a percepire il minimo movimento nella casa.
E io parlo da sola. Cazzo.
Quel DRRRRINNN, poi, mi sa tanto di lo-so-che-sei-in-casa-apri. Così apro, in braghette corte, canottiera e buio pesto alle spalle. Magari si spaventa! Guarda in su, poi mi fissa stupita, come se fosse strano trovare una a casa sua.
  "Ah.. non sei tua mamma??".
No, beh, effettivamente non sono mia mamma, che facciamo? Richiudo? No, non si può, perché un bagliore le si accende negli occhi.. la luccicanza di Shining, presente? Paura!
Quindi tengo aperto, resto guardinga e chiedo:
  "Ha bisogno, signora?". Provo anche a sorridere serenamente.
La luccicanza persiste, indietreggio e le sento chiedere, secca:
  "Si vede Canale5?? e Rete4?"
Eh?? Che domanda è alle tre del pomeriggio? La guardo piegando la testa e le dico che immagino che si vedano, ma che tanto non accendiamo più la tv, quindi non è molto importante. Mi ripete la domanda altre tre volte, avanzando oltre la soglia. Paura!
  "Ehm, signora, non lo so se si vedono. Non guardiamo mai la tv".
Sono stordita dallo sguardo. Non voglio desistere, ma sento che sta vincendo lei. Fa un altro passo e si avvicina minacciosa alla tv:
  "E guarda, no?? Guarda se vanno!          Per piacere."
Lo ha aggiunto poi. Ha detto 'per piacere', ma è un ultimatum. Mi arrendo, accendo la tv e spero tanto di aver aggiornato il digitale terrestre, così che tutto vada bene e lei sia consapevole di non saper usare il televisore. E invece no, mannaggia, me ne son fregata, perché nessuno li guarda mai, quei canali: mediaset mi ucciderà. Me la son voluta: ecco pronta la vendetta del nano bungabunga.
Porca vacca, ora dirà che è l'antenna e che bisogna fare qualcosa!!!
  "Non va? Ecco! Vedi? Vedi? Bisogna far qualcosa, dopo vado giù dal tecnico."
Sant'uomo, penso, e la guardo completamente disinteressata per non fomentare la luccicanza. Le ripeto che non è importante, che c'è caldo e che presto si sistemeranno da soli, i canali. (Non è vero, La7 non si vede qui, cazzo, ma non è mica l'antenna, sarà la censura, però ho troppa paura per darle ragione! È il tipo di persona che non va assecondato, ma abilmente rassicurato e deviato dai suoi pensieri. Oh.. ma perché ho aperto?)


La luccicanza cala miracolosamente (che l'abbia rassicurata abbastanza?), mi guarda e sorride:
  "Come sei bella, sai???"
Che ansia, quando mi dice così: ho sempre il terrore che mi cada la faccia.
La ringrazio tra l'imbarazzato e il terrorizzato. I famosi brividi freddi. Ancora più inquietante se ci sono 32 gradi in salotto. Esce, così com'è entrata. Chiudo la porta e me ne dimentico. Ah, sana rimozione.

[continua]

mercoledì 6 luglio 2011

Vicini vicini.

Circa tre mesi fa la sgommata di un'auto ha fatto volare e distrutto una grata davanti casa, lasciando lo scolo scoperto giusto per rompersi una gamba a piedi, la testa in bici e far partire le sospensioni di due delle quattro ruote con un colpo solo.
Dopo che la mia vicina Sbattitovaglie, nonché sorella del Grande Fratello, ci ha fatto notare che qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa, chiamare i soccorsi, salvare la città dal baratro, ha ben pensato di non essere la persona giusta per farlo. Modestia, suppongo. Comunque sia, abbiamo provveduto noi a chiamare Polizia prima e Carabinieri poi - come con la Lotteria: più biglietti compri e più aumenta la probabilità di vincere, solo che poi non vinci - E invece no! La risposta, pronta e tempestiva, è arrivata dopo due giorni sotto forma di cono imbitumato, messo in bilico sull'aperta ferita stradale.
Il giorno dopo Mr Cone aveva, chissà come, fatto il giro del palazzo e stava accasciato su un lato, visibilmente sbronzo. Tempo altri tre giorni e l'hanno rapito senza richiesta di riscatto. La settimana successiva ho visto uno che gli assomigliava, incastrato tra le sbarre di una recinzione. Chissà se era lui o un altro del villaggio dei Coni che aveva preso una cattiva strada.

C'è chi è nato per perdersi e chi per preoccuparsi o meglio disseminare ansia tra i quartieri: la vicina visibilmente scossa è tornata alla carica, avvertendoci del furto (e che qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa, ovviamente).

"Il birillo, il birillo.. avete visto?? Han rubato il birillo!!!"

Ho chiamato a me tutta la forza di Luke Skywalker e anche del padre oscuramente asmatico per non scoppiare a ridere. Mi vedevo già file di persone pronte a giocare a Bowling sul ciglio della strada, una specie di roulette russa per pensionati. Ho benevolmente sorriso e atteso il fiume di parole successivo con stoica fermezza. A quanto pare il tono preoccupato, questa volta, era un'avvisaglia di eroismo, perché Sbattitovaglie ci ha fatto sapere di aver telefonato di nuovo ai Carabinieri, spiegando molto chiaramente l'emergenza in corso. Ci telefona subito - sì, telefona e abita sopra di noi, la tecnologia è una rovina a volte - orgogliosa come un bimbo ai primi passi, certa di aver cambiato il mondo.
La conversazione dev'essere stata talmente precisa e luminosa da accecare le sveglie menti comunali, perché il giorno dopo hanno piazzato due cavalletti in entrata ed uscita al parcheggio di fronte a casa malmesso da anni, in effetti, ma non propriamente utili a tappare la nuova falla che sta da tutt'altra parte. Un problema alla volta.

I giorni scorrono e la vicina mi bracca sulle scale avvertendomi del pericolo sempre incombente, sorvolando prontamente sul risultato dell'atto eroico. Aggiungendo che qualcuno dovrà fare qualcosa.

E così stamane faccio colazione, guardo fuori e mi vedo una tizia che entra tutta sprint nel parcheggio. Si ferma accanto al cavalletto, lo sposta lasciando un altro scolo scoperto, si sistema nell'unico posto disabili, senza avere il contrassegno, e se ne va.
Mi son detta: "Qualcuno deve fare qualcosa!". Una strana saggezza mi è entrata nel cuore: insegui un problema e ne risolverai (va beh, si fa per dire) un altro.
Per un attimo volevo chiamare la Polizia, denunciando l'accaduto. Sia mai che se li chiamo per rimuovere la macchina e sistemare il cavalletto, non sistemino la grata. O, meglio ancora, arrestino Sbattitovaglie per vicinanza molesta.

domenica 26 giugno 2011

Have you forgotten.. ?

Notavo che siamo figli di ogni istante della nostra vita e, di ogni momento, siamo i portatori sani o malati, in base alle situazioni. Ci accorgiamo di certi gesti automatici che non ci appartengono più e che ripetiamo o con cui gli altri ci identificano.
A volte incontro gente che distoglie lo sguardo timida, altre volte distratta, altre ancora per abitudine, stanchezza, preoccupazione, vergogna. Pure per defilarsi in modo pavido. Si legge che è segno di poca fiducia distogliere lo sguardo, ma osservo che ogni persona dimostra la fiducia in modo diverso e in modo differente la rende salda o la demolisce.
Penso che tempo fa ci fossero cose che mai avrei fatto per amor di coerenza. Oggi mi accorgo di farle per lo stesso amore.
Da una stretta di mano si sente la decisione altrui. Certo una stretta fiacca è diversa da quella che ti stritola la mano, come se dovesse fonderla in sé. Eppure abbiamo una sensazione che possiamo sentire, ma non del tutto interpretare: sentiamo quella stretta e finiamo per credere di aver capito, quando magari c'è tutto un labirinto di motivi che rende quel gesto diverso dalla persona a cui appartiene.
Penso che spesso certe generiche interpretazioni siano veritiere o vicine alla verità. Un uomo che sembra burbero, finirà per esserlo, se ne convincerà lui stesso; un bambino cullato di fiducia finirà per amare, un bambino impaurito e lasciato a lottare da solo finirà per graffiare o graffiarsi. Chissà. Magari no.
Quello che mi interessa è come, è il percorso, sono le impronte. Perché a volte ci si trova a sembrare per lungo tempo quello che non si è, ci abituiamo a vederci e farci vedere così, a volte si amano persone che non vedono così bene e si arriva a non guardare allo stesso modo. Mi importa l'insieme delle piccole cose, capire che a volte distogliere uno sguardo è segno di una timidezza passata e sorpassata, che ora sembra dare una sfumatura superba al volto ed invece è solo fierezza per il percorso fatto.
A volte uno sguardo serio aspetta solo di essere sorpreso da un sorriso gratuito, a volte una disabilità diventa abilità solo per l'affetto che riceve.
Non sappiamo un bel niente, però intuiamo un sacco di cose, le vediamo, le sfioriamo. A volte bisogna proprio fare quel qualcosa che ci frena per trovare l'equilibrio giusto, per capirlo, per superarlo. Bisogna sporcarsi, bisogna sperare di non fare troppo del male, di non ferirci troppo da farci chiudere a riccio per sempre. Ma esiste un sempre senza una possibilità di movimento e rinascita?
Non credo. Non lo so. 

Ora, fine giugno, stanca ma serena, incasinata come sempre, irrisolta e lontana dalla realizzazione ma non da me stessa, sento che è proprio bello che siamo tutte quelle piccolezze che sottolineano i nostri errori e i nostri traguardi; non è bello cadere, ma le cicatrici ricordano, costruiscono una storia. Qualsiasi cosa si esprima istintivamente, è bello scoprire che alcune persone sanno vedere oltre e vedere te, per come sei e così voler passare del tempo con te, anche se magari non ci pensavano, ma poi avviene e si sta così bene. È bello poter dire di conoscere qualcuno al di là di quello che sembra, ma per come è.
Rigenera ed è più bello di quello che sembra, ma soprattutto rimane rassicurante dentro, come la voce del mare.

lunedì 20 giugno 2011

Vuoti a vincere

Il bello delle fotografie è che restano, ma ingialliscono.
Le fotografie non devono essere scattate con la macchinetta per rimanere nei ricordi. Sono istantanee del nostro sguardo. Disegni realistici, ma così intimi da non risultare mai oggettivi.
Le fotografie profumano e a volte trasportano lontano: lo sai che ci stai andando, ma non riesci a frenarti. Sanno stare in silenzio, ma dicono sempre qualcosa.

Il web contiene tutto, raggiunge tutto, trasforma tutto e tutto lascia uguale.
Il web non fa distinzione tra passato e presente, non guarda all'evoluzione delle persone che ci passano su, ma incasella all'infinito dati, pensieri ed immagini. Veri o falsi, offensivi e sublimi, superficiali o profondi, son tutti lì. Senza ingiallire. Forse internet confonde col non stropicciarsi delle idee nel tempo, forse è che rende asettico e distante quello che nella foto diventa emozione e brivido. Forse gioca su altri binari.

La palestra mette in pratica il pensiero di movimento, mette in moto, fa sudare anche le elucubrazioni mentali, cancella l'attesa trasformandola in energia. Le azioni, a volte, si perdono in ripetizione meccanica che sgonfia il desiderio e l'entusiasmo. Le azioni costruiscono, ma possono distruggere. A volte salvano dall'apatia e dal troppo silenzio, altre volte ne creano il bisogno, fanno desiderare di fermarsi.

Il rumore rincorre il silenzio, il silenzio si scuote per fare rumore.
Le persone a volte dimenticano che non sono solo fotografie, né solo una massa di dati o di azioni meccaniche. Altre volte credono fortemente di essere qualcosa che non sono.
La gente a volte si perde e si spaventa, si sfida, trova, cerca e si arrende, ripete le stesse cose, sbaglia e vince. A volte l'essere umano sa vivere un istante pensando, agendo e amando proprio nello stesso momento. Però non lo sa finché non percepisce la bellezza di quell'attimo, che generalmente avvertirà come un piacere più o meno intenso da qualche parte dentro. Ma appena lo comprenderà finirà per scivolare altrove, dimenticando, ma un po' più vicino a se stesso.
Le persone possono essere fotografie, possono essere dati e pensieri senza limiti, possono essere i gesti che compiono. Possono essere tutto questo insieme o non pensarci mai.

Possiamo negarci a noi stessi tutta la vita.
Possiamo scegliere di non farlo. Ingiallire e ritornare nuovi, stropicciarci, colorarci, riempirci e svuotarci di senso e allegria; conoscere, ignorare, fare, morire di routine, consumarci, oziare pigramente sul dorso della vita. Canne al vento, sì. Ma pensanti.


"L'uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell'universo su di lui; l'universo invece non ne sa niente." (Blaise Pascal)