mercoledì 21 agosto 2013

La grande bellezza

Credo ci sia una bellezza facile ed una difficile.
Quel che complica le cose è usare lo stesso nome per così differenti emanazioni.
La bellezza facile è spesso immediata, leggera e notabile. La stessa cosa vale per quella difficile, solo che contiene un inespresso speciale, curioso. A volte doloroso, a volte no. In genere nascosto volutamente, altre volte dimenticato tra le pieghe di un velo di seta, che copre al solo scopo di scoprire lentamente ed inesorabilmente intimità.

Posso dire d'aver fiuto e molta confusione. Ma il profumo della bellezza difficile sfiora la pelle come un bacio inaspettato ed ha quella fragranza indescrivibile di mamma, quando la cerchi, la presa sicura delle mani grandi da papà che scaldano e un po' spingono, il sorriso ingegnoso della creatività che ti si è fatta sorella, le voci amiche che da lontano ti sono vicine più del tuo stesso sangue.
E quel particolare sapore che ha l'aria sul viso quando le corri incontro o l'acqua quando hai molta sete; il buon vino nelle serate d'ebbrezza, la consistenza di un lenzuolo che testimonia amore e la pace delle palpebre che si chiudono senza controllo dopo i viaggi: una passeggiata in montagna, una giornata abbracciata al mare o col lavoro antico della terra tra le mani, la fatica lavata via dalla doccia e dalla sensazione che la bellezza difficile non può essere comprata, ma solo gustata.


martedì 26 marzo 2013

Aggrappate su un ramo in attesa

Lo so che scrivo a singhiozzi e che pare di essere in una famiglia con la regola del "non aiuto in casa però, cazzo, ascoltatemi quando parlo a tavola!".
Pensavo alla giustizia. La politica ormai, solo a sfiorarmi, mi fa rabbrividire di fastidio. Vale tutto ed il contrario, basta che sia insano. Ed il contatto con adolescenti stanchi non migliora l'umore.

La neve a fine marzo non sarà cosa unica, ma fa una certa impressione. Passare giornate con guinzaglio alla mano per strattonare libertà lacerate in partenza, mi stanca, mi deprime quasi quanto il vuoto. Ricompongo un puzzle in cui unisco discorsi dei miei tredicenni di fiducia: l'incapacità di un ragazzino nel trattenere la frustrazione verso il mondo che lo sta ospitando in malo modo, mi fa male. Mi aggrappo all'esperienza passata, la mia, quella di altri, vissuta, letta, immaginata. Mi aggrappo ai perché, ai retroscena. Ma non riesco. Guardo un'ingiustizia sciocca tra adolescenti, una stupida presa in giro di poco valore e mi scappa da urlare. Io, quella che scalava i muri, saltava dagli alberi e correva più veloce. Quella che tornava per conto suo a sette anni, per non aspettare.. perché poi non c'era nulla da aspettare. Il mio tempo passato a costruire idee, frantumarle, plasmarle, fagocitare aria e distrazione. Il mio desiderio di essere cercata solo perché c'ero e sapevo esserci. Ore a pattinare, la rabbia tra gli occhi, il dolore nelle ossa, che non chiamo ancora per nome. Quell'amore che strappavo coi denti e che da me stessa poi lasciavo uscire centellinato per poi straripare di colpo in una piena di emozioni che raramente ha risparmiato vite.
Ed ora eccomi qui, a cercare comprensione di questi sguardi giovani, appesi nel vuoto. Parole e percorsi simili, eppure così lontani. Insegnare tra i banchi le stesse cose di 100 anni fa, stesse parole, esperienze trasfiguarate, stessi tavoli col buco per il calamaio e domandarsi perché tutto precipita.
Perché le parole non arrivano?

Pensavo a quante volte non comunichiamo davvero. E le parole le usiamo come manate sulle spalle, che un po' ci rassicurano e un po' ci instabilizzano. Ma non ci trovano. Chissà dove siamo, quelle volte. Chi si prende cura del nostro ignorarci. Cosa ci permette di avere altre possibilità quando saremo pronti. Perché pare spesso che succeda così. Spesso, non sempre.
Siamo così diversi quando parliamo del mondo e degli altri senza lasciarci sporcare da noi, senza esserci. Così sicuri e pieni di moralismi e regolamenti. Poi basta una sbucciatura, un'offesa inaspettata, un punto di vista che ci ribalta come un calzino e torniamo in vita di colpo. Torniamo a tremare come foglie di uno stesso albero, che bramano la libertà quando salde e verdi, ci nutriamo della sua linfa e che, ironia della sorte, impariamo a volare solo dopo morte. Solo se disposte a nutrire e diventare la stessa terra che abbiamo deriso. Calpestato, magari. Ma che eravamo sempre noi.

giovedì 10 gennaio 2013

È tutto vero. Punto di domanda.

Che il valore della verità sia una mia fissazione, è ben noto. A me intendo. E pure a quelli che mi amano. Ma non solo: anche a quelli che mi hanno conosciuta sotto vesti spigolose, senza gesti lievi, quando per farmi capire uso linguaggi arrugginiti da rabbia e graffi di un animale impaurito. E mi ritiro nella mia tana.

La verità. 

Che son mesi che mi frullano pensieri a riguardo, mesi di evoluzione, crescita. Mesi di silenzio, perché delle parole c'è un uso limitato nello spazio dell'aria. Mesi di cammino, che mai ho smesso di camminare, pure ora con la mia stampella. La verità mi sta lì, sotto la pelle. Un sangue che non si mescola coi fluidi, che sta in superficie come l'olio e alla prima ferita spurga senza ritegno, come solo ciò che è vero può fare.
Mesi che mi domando cosa voglia dire verità nelle emozioni, nell'autentico affetto. Quanto, alla fine sia tutto una farsa. Vero. Falso. Relativo. Se mi hanno indicata come relativista, non mi è mancato mai l'appellativo di esagerata, drastica. Vero. Falso. Sì. No. Quale colore prevale? Lo vediamo davvero? Lo creiamo nella nostra mente fino a convincerne? Tocchiamo davvero o ne abbiamo una sensazione vaga nei polpastrelli? Relativista. E alla fine la verità non è né l'una, né l'altra.

Quella storia che nessun esperimento possa essere privo dell'influenza dello sperimentatore, mi affascinerà sempre. Che succede dentro la scatola chiusa, finché la lasciamo com'è? Cosa rimane addosso nel dimostrare qualcosa, con la sola speranza che questo venga confutato il più tardi possibile?
Mi rendo conto. Pippe mentali. Passatempi per nullafacenti, per semiborghesi comunisti, che intrappolano la frustrazione di una società iniqua e pigra, nel sogno di ideali e altezzose speculazioni astratte. Che sono nulla. Che dissipano da sole, come col fumo fa il vento.

Ma la verità. C'è un luogo che la contenga? Un punto nell'anima in cui ci è possibile la resa? Un "mi arrendo, nient'altro da dire: questa è la verità". Pensavo che la tiriamo fuori, la nominiamo sempre, quando usciamo da una gabbia. Ci contengono così tante gabbie, che uno crede non ci sia fine e per me, invece, c'è.
La verità apre tutte le gabbie. Una ad una. Lentamente. Non le fa sparire, certo. Non le rende belle ai nostri occhi, le abbruttisce al punto da farci scegliere di uscirne. O di ritenerci degni di quella bruttura.
Le gabbie, la nostra storia, i nostri occhi limitati e spesso stanchi. Cosa può dare la verità a miliardi di individui diversi uno dall'altro che si mentono così volentieri?

La verità è che non lo so proprio. So solo una cosa. Che la devo aver incontrata da qualche parte, tra una bugia e l'altra. Tanto che l'ho confusa. Tanto che mille menzogne, poi, si travestono con la sua eleganza. Eppure l'ho incontrata. Ed ogni volta che l'ho vista. Sono cresciuta.
 Non in altezza, evidentemente, se no sarebbe un dramma.
Ringrazio i miei occhi, le mie mani, le mie orecchie, ringrazio ogni mio fascio muscolo-scheletrico per aver retto la verità ed averla scelta. Abbracciata. Cullata tra le braccia e fatta loro. Ringrazio per il suo urlare muto e il picchiare sordo. E prego perché non scivoli via dietro i miei insulti.
Perché insultare la verità non fa altro che insultare noi stessi.

lunedì 27 agosto 2012

Sinonimi e contrari

Mi appartiene ciò che non ho,
mi possiede ciò che sa stare altrove.
Vivo in luoghi che non ho mai visto,
mi conoscono anime che non mi hanno interrogata.

Rido di gusto per ciò che non vuol farmi divertire,
mi manca quello che mi sta tra le mani.
Mi nutre quel che non ho potuto mangiare,
mi disseta l'acqua scivolata tra le dita.

Rabbrividisco a ciò che non mi tocca.
Ascolto il silenzio, di tanto in tanto.


domenica 10 giugno 2012

This must be the place

Volevo scrivere del terremoto, del master in corso, di emozioni, di fatti ed auto gialle.
Ed invece sto qui, con un'idea strana di contrasto, di opposti che si attraggono, di contrapposizioni che si inseguono come l'entusiasmo incosciente segue la paura paralizzante. E si fanno Uno.
Sono qui con coppie di pensieri a braccetto, che niente hanno a che spartire l'uno con l'altro:
merendine e pane semplice, campagna e grattacieli, desolazione e movida, malattia e leggera superficialità, musica e vuoto, silenzio e baccano, animali e lastre di lamiera, fessure e lucchetti, sogni ed illusioni.
Un sacchetto unico. Dividere, ordinare, pulire, per poi accorgermi che tutto sta nello stesso sacco di iuta, in cui si mescola affetto e rancore, pensiero e ignoranza, curiosità ed apatia.
La sensazione netta che le divisioni, le definizioni e i concetti non siano che sciocche parole astratte, concretizzabili, ma senza senso.

Gli occhi di uno sfollato, il portafoglio gonfio di un manager, le mani di un bambino a scavare nel cassonetto, le gambe di un pazzo, i pensieri di un paralizzato, i dubbi dei vincenti, le piccole certezze conquistate tra un fallimento e l'altro. Le certezze sgretolate, l'arroganza insensibile, la povertà ricca e quella arricchita e persa. La serenità ritrovata d'improvviso, dietro una curva, al pensiero di travi di legno di mansarda e tavoli spaziosi di fantasia. I soldi e la carta macinata a striscioline. I parcheggi vuoti e le buche profonde. Gli eroi, gli assassini con un perché e quelli senza scuse, i vigliacchi, gli eterni sinceri. Le bugie tra le righe e quelle che implorano verità. La luce al mattino che si diffonde inesorabile ed è giorno. La notte che ci oscura i colori, senza cancellarli. Un mondo che ci accoglie con meraviglia tenera, che non piange di fronte alla morte, né esulta senza controllo di fronte alla vita. Lacrime e sorrisi sono solo nostri.
O solo non conosciamo troppi linguaggi e ci sentiamo sensibili, quando semplicemente non capiamo e ci sfugge il senso di questo minestrone.
O solo niente. O solo tutto.


C'è che penso che ci sia posto per tutto. Per tutti. Qui nel mondo, qui dentro di noi. Posto per sentirci vivere bene e godere follemente del bene che osserviamo, a cui possiamo partecipare o solo sfiorare. C'è posto.
Ma a capire qual è il nostro, a smussare gli spigoli, ad amare veramente ci mettiamo una vita. O due. O chissà quante ce ne serviranno per aprire gli occhi nel presente e dire: "Ancora!"

domenica 22 aprile 2012

Oh, rabbia!

Da piccola giocavo molto coi soprammobili. In salotto c'era una bottiglietta di vetro, tipo quelle con la nave, che ti domandi come sia finita lì. C'erano tre cagolini di vetro, in fila, dentro. Un oggetto orrendamente kitch, non lo nego, ma l'adoravo. E adoravo il piccolo tappo di sughero che la chiudeva.
Probabilmente l'intenzione era molto evidente, perché mi dissero di non toccare quel tappo. Che se l'avessi fatto i tre cagnolini sarebbero diventati sempre più grandi, dimensioni naturali, e sarebbero fuggiti.
Ci ho creduto. Ma soprattutto quel tappo l'ho lasciato stare per anni. Non temevo che fuggissero. Temevo tanto che non lo facessero.
Ho lasciato quella favola abitarmi molto a lungo, anche quando ormai era una sciocchezza pure per me, almeno a parole. Perché nei fatti c'era una minuscola e tenace parte dentro che voleva crederci ancora un po'. Solo da adulta mi capitò in mano quell'affare senza senso che amavo tanto e decisi di stappare la bottiglia. Lo stupore che ho provato nel vedere che tutto rimaneva fermo, mi turba ancora. Avrei voluto con tutta me stessa che quel tempo passato a credere avesse avuto un motivo magico nascosto. Una magia travestita da favola, ma che in realtà è concreta e ti travolge la vita. E invece no, son rimasta lì, con un pugno di mosche, anzi un pugno di cagnolini di vetro che non volevano uscire dal loro incanto.

E mi domando ancora se ho solo sbagliato il tempo per aprire il mio vaso di Pandora. E mi domando anche perché, da allora, la ricerca della verità, la conoscenza, il reale contano per me più della sofferenza che subisco nell'incontrare la disillusione.
Ma la rabbia, la rabbia di tenere in mano qualcosa che non respira più perché respirava solo attraverso di me, mi fa male, ancora. Male come il rumore del vetro infranto. Come il freddo immotivato in un giorno d'aprile.

giovedì 12 aprile 2012

Povertà ricca

La politica da sempre mi interessa e mi strema, mi innervosisce, mi fa piangere. E non è banale. C'è un perché.

Ritorno dei vecchi tempi. Un'anziana signora che ricordo così da quando avevo dodici anni: bassa, rugosa, occhiali scuri ambrati, vestiti usurati, denti finti ben in vista negli scoppi di risate. Non sposata. Ha passato la vita a fare le pulizie per molte persone, ad accompagnare anziani ai giardini, a chiacchierare. A dare, si potrebbe dire.
Voce decisa, forte e un po' acuta. Ironia disillusa tra il fiume di parole. Tanto che da piccola temevo di rimanere intrappolata nelle sue visite che duravano ore. Vive da tempo in una vecchia casa popolare da cui hanno tentato di cacciarla, lasciandola fuori casa diversi mesi ospite qua e là. Almeno qualcuno deve averla ricambiata. Non le è mai mancato un pensiero per le persone che conosceva. Una telefonata e subito dopo una visita. Ricordo vagamente il passato. Confuso.
È rivederla che mi ha riportato un magone al cuore che non se ne andrà.
Entra in casa, curva, stretta al cappotto. Si siede e appena sguscio nella stanza mi chiama ingegnere, ancora prima di guardarmi il viso. Si scusa di non aver terminato le scuole elementari. Le sorrido, mi stringe la mano. La bacio e mi augura felicità. Mi siedo. L'ascolto mentre la lascio parlare con mia mamma. Ascolto, intervengo solo se necessario ma, così spesso, non lo è.
Racconta della bicicletta che non può più usare, del suo cuore che le fa gli scherzi. Del cardiologo che le consiglia un'operazione necessaria, ma le dice anche che non può, perché è sola e non la riuscirà ad affrontare senza nessuno che se ne prenda cura. Così le scrive su un foglio che è lei a rifutare l'intervento. Lei firma. Ride mentre dice che tanto, tutti lì si va ed indica il soffitto. Quando sarà sarà.
È lì che inizia a salirmi un magone sinistro, profondo, che non mi fa stare seduta comoda sul comodo cuscino della mia sedia. Non è tanto l'idea della morte, dei problemi. È qualcosa di più sottile e profondo.
Intanto lei continua, racconta. In questo periodo fa compagnia ad un 94enne che cammina meglio di lei, dice. Lo fa finché ce la fa, non potrebbe. Spera solo di non accorgersene quando se ne andrà. E mi immagino questo vecchio magro, da sempre benestante, dignitoso, che le cammina accanto, vecchia, affaticata, dignitosa e senza un soldo.
Qualcosa mi sale dalla gola, ma lo fermo e resto in ascolto. Mi aggrappo al tavolo. Un po' mi sistemo ancora sulla sedia, un po' gioco con un centrino fatto all'uncinetto da mia mamma. Pare di avere in mano il passato e invece semplicemente non c'è più. Si parla delle differenze e le ingiustizie, di povertà e ricchezza, di come suo nonno con la casa di pietra faticò a sposare la moglie che viveva in una vecchia casa di canne perché la sua famiglia rifiutava d'accettare. Tutto diverso allora e così uguale. La povertà. Quanto la temiamo e quanto ci si infila dentro senza chiedere. Tra il benessere e la superficialità in cui ci culliamo, rifiutandola a singhiozzo.
Mi sembra di sentir parlare una povertà dignitosa che troppe volte dimentico tra facili discorsi sulla crisi e i problemi che ora mi sembrano così sciocchi e finti.
Ed eccola lì. Mi allunga una busta, scritta con precisione. Si scusa ancora per come scrive ed aggiunge che voleva fare l'avvocato da bambina, sì. Senza studiare. Ride di gusto: "Si può mai far l'avvocato senza voler studiare?!" Abbassa la testa, mi sento a disagio con me per tutta quella dignità che mi abbraccia. Mi sento a disagio con le notizie di lauree comprate e tutto, tutto quello che so e non so di questa società e del baratro in cui naviga incosciente.
Il magone si acuisce alla gola e allo stomaco. Mi restano dei sorrisi malinconici di comprensione che sono solo specchi su cui mi arrampico senza far presa. Vorrei frantumarli, ma non ci riesco.
Apro la busta e il biglietto. Cento euro scivolano dal biglietto sul tavolo scuro di legno e ammutolisco. Guardo mia mamma e lei inizia ad accatastare parole, mentre la mia mente combatte duro col cuore e non trova pace.
Accettare o rifiutare han lo stesso sapore amaro.
Non tocco nemmeno quei soldi, leggo il biglietto. Lo rileggo quattro o cinque volte. Ringrazio aggiungendo la frase più scema che esista:
"Non serviva tutto questo, davvero. È troppo".
Lei insegue un suo discorso invisibile e lontano, continua a scusarsi per la sua ignoranza con parole che mi appiattiscono al mio io più profondo e mi ci lasciano abbracciata per non sentire il senso di vertigine. Rileggo. Lei prende la busta, il biglietto e i soldi. Richiude tutto e lo appoggia al tavolo.
"Avessi potuto avrei messo di più. Ma non posso e le fiorerie erano chiuse".
Così la parte della mia mente che ama la giustizia ed è contro le differenze accetta con un sorriso, fingendolo meno malinconico. Si alza, ora. Va dal medico. Le stringo la mano. La mia è molto più fredda, non lo so perché, sono calorosa di solito. La bacio di nuovo e la guardo andar via, le mani in mano. Le mie, che non so dove mettere.

E non so che senso ha la Vita e l'Amore che la sballottola da una dimensione all'altra. Quel senso di pianto che mi è rimasto dentro, una volta chiusa la porta, mi fa pensare che si impigli, l'Amore. Che tu voglia o no ti si impiglia addosso, dappertutto, tanto che non sai nemmeno dove metterlo. E quando te lo affidano così, senza perché - come è giusto che sia - è miracoloso; ti sovrasta, perché non puoi non prendertene cura, anche quando non sai come fare. E non puoi nemmeno non darlo, quando davvero lo provi e ce l'hai dentro. E l'Amore è così oltre i confini che chiamiamo confini, da spingerti verso l'esterno. Devi uscire. Da te. Esci a parole che spostano l'aria, a singhiozzi, a risate miste a paura, a lacrime con cui vorresti lavare il mondo.
E invece quel salato pulisce solo gli occhi. I nostri. Che guardano in modo nuovo.

È così che si rinasce?